Approfondimenti
circa la Corruzione
Fidel
Castro – colui che diverrà il Líder Máximo –
è nato il 13 agosto del 1926 nel
villaggio di Birán – nella fattoria Las Mañacas – nella provincia di Holguín,
in Oriente, un lembo di terra con maestose montagne, splendidi litorali e città
ricche di storia.
Il padre, Ángel Castro y Argiz, originario della
Galizia spagnola, era un benestante possidente terriero e certamente le agiate
origini familiari del giovane Fidel non avrebbero fatto presagire in alcun modo
il suo futuro destino rivoluzionario. Egli infatti, rampollo di una famiglia
benestante, poteva fare una vita comoda e agiata, preclusa a gran parte della
popolazione cubana. La madre, Lina Ruz González, era stata la domestica del
padre ed era ben più giovane di lui. Fidel era il terzogenito di sette figli;
cinque anni dopo sarebbe nato Raúl, suo compagno nella rivoluzione cubana.
L’infanzia e l’adolescenza di Fidel furono dunque
serene e senza problemi economici, nonostante Cuba stesse vivendo in quegli
anni momenti difficili a causa di una precaria situazione economica.
L’economia cubana era cresciuta molto rapidamente
nei primi vent’anni del Novecento, stimolata dai solidi rapporti commerciali
con gli Stati Uniti e dalla favorevole congiuntura creata dalla prima guerra
mondiale. La crescita era però basata in modo pressoché esclusivo sullo
zucchero, la principale risorsa del Paese, e sulle privilegiate relazioni
economiche con gli Stati Uniti. I molti capitali americani affluiti a Cuba,
dove trovarono terreno fertile per i loro investimenti, furono difatti
fondamentali per la crescita economica dell’isola, dato che controllavano ben
il 70% della produzione di zucchero, oltre alle infrastrutture e ai traffici
commerciali. Il peso economico degli Stati Uniti su Cuba era pertanto
significativo e si faceva molto sentire.
Il benessere economico di questo periodo,
distribuito però in modo alquanto diseguale tra la popolazione, si rivelò nel
volgere di pochi anni assai fragile, tanto che nel 1920 una brusca caduta del
prezzo dello zucchero provocò un tracollo finanziario, che ebbe quindi gravi
ripercussioni sull’economia del Paese, portando alla rovina diverse istituzioni
bancarie cubane, incapaci di reggere il peso della crisi.
Per porre rimedio a questa soluzione nel 1925, l’anno prima della nascita di
Fidel Castro, divenne presidente della repubblica cubana il generale Gerardo
Machado, il quale – dinanzi al sempre più crescente malcontento popolare per la
crisi economica dell’isola – instaurò la cosiddetta dittatura machadista, tesa
a far tacere ogni forma di opposizione degli avversari politici.
Questo fu il clima politico degli anni
dell’infanzia di Fidel, ma nulla di ciò – se non echi, sentiti peraltro come
lontani – giunse nella tenuta del padre, la Finca Mañacas, ossia la Tenuta
delle Palme, che si trovava nella Sierra del Cristal, tra Santiago di Cuba e
Mayarí. Qui egli visse felicemente, immerso nella natura e a contatto con gli
animali. I suoi amici erano i figli di coloro che lavoravano nella tenuta e
questi rapporti di amicizia fecero comprendere a Fidel sin dall’infanzia e
dall’adolescenza le condizioni di vita e le necessità della povera gente e
forse maturare in lui già in quegli anni una prima embrionale coscienza sociale
e politica.
Vedendolo vispo e intelligente, i genitori fecero
frequentare a Fidel Castro, appena compiuti cinque anni di età, la scuola di
Maracané, vicino a Mayarí. Gli ottimi risultati scolastici spinsero il padre e
la madre a mandare Fidel a Santiago di Cuba per seguire lezioni private e poi –
sempre nella stessa città – quando non aveva ancora sette anni fu iscritto al
Collegio La Salle, un istituto per i rampolli delle famiglie benestanti, tenuto
dai Fratelli Mariani, un ordine di origine francese.
La nostalgia di casa e il suo forte carattere mal
si addicevano alle rigide regole del collegio e accrebbero la sua
irrequietudine, che talvolta si manifestava in un comportamento ribelle. Alla
fine il padre – anche su insistenza della madre, che meglio conosceva il
carattere e la personalità del figlio – si decise a ritirarlo dal collegio e
così Fidel fece ritorno a casa.
Ritornato nella Finca Mañacas, Fidel Castro riprese
la vita che aveva contraddistinto gli anni dell’infanzia, riallacciando i
rapporti con gli amici. Questa era la dimensione nella quale egli ebbe modo di
crescere e formarsi, affacciandosi agli anni dell’adolescenza.
Il rapporto con il padre – che si era incrinato in
occasione del suo ritiro dal Collegio La Salle – cominciò a logorarsi a causa
di un episodio di cui il giovane Fidel fu protagonista: all’età di tredici anni
– sensibile alle dure condizioni di vita di coloro che lavoravano nella
piantagione di canna da zucchero della Finca – egli fomentò una rivolta e
organizzò uno sciopero contro il padre, a cui rimproverava di sfruttare i
contadini.
Per Fidel non si trattò tanto di una ribellione
contro il padre, quanto di una piccola battaglia per la giustizia sociale, che
non si doveva fermare nemmeno davanti agli interessi personali. Certo è che
questo episodio creò una ferita non facilmente rimarginabile nei rapporti con
il padre, che non riusciva a comprendere le posizioni e le idee del figlio.
Negli anni successivi Fidel Castro frequentò il
Collegio gesuita Dolores di Santiago di Cuba, vivendo prima presso una famiglia
e successivamente – dal momento che non si trovava bene – all’interno del
collegio.
Fidel, dotato di un’intelligenza vivace, ebbe modo
di distinguersi per i suoi risultati scolastici e i suoi genitori nel 1941, quando aveva quindici anni,
decisero quindi di mandarlo all’Avana in una delle migliori scuole di Cuba,
vale a dire il Collegio gesuita di Belén, dove avrebbe preso la maturità.
Il giovane Fidel lasciò dunque la sua terra natale
che tanto amava per trasferirsi nella capitale. La nostalgia per il mondo della
sua infanzia e dei primi anni dell’adolescenza era in lui compensata dal
desiderio di conoscere nuovi orizzonti e di fare nuove esperienze, quelle
appunto che la capitale cubana poteva offrirgli.
L’approccio di Fidel Castro con l’Avana, nei primi
mesi della sua permanenza, non fu certamente facile, abituato come egli era
alla dimensione del piccolo mondo della sua infanzia, ma la sua spiccata
personalità gli consentì ben presto di ambientarsi e anzi di trovarsi a proprio
agio, pronto come era ad affrontare di petto ogni situazione. Questa nuova
esperienza di vita fortificò notevolmente il carattere di Fidel e gli diede una
maggiore sicurezza, tanto che in nuce già si poteva intravedere la sua forte
propensione alla leadership.
Nell’esclusivo Collegio di Belén, frequentato dai
rampolli delle migliori famiglie dell’aristocrazia e borghesia cubana, Fidel
Castro si distinse per la sua intelligenza e per la sua prestanza fisica,
divenendo uno dei più valenti sportivi della scuola. Fu negli anni di studio
del collegio che Fidel Castro si avvicinò al pensiero e all’opera del patriota
cubano José Martí, che per lui da quel momento divenne un vero e proprio punto
di riferimento e il cui pensiero sarà per il Líder Máximo una fonte
inesauribile alla quale attingere continuamente.
Il giovane Fidel ammirava di Martí la sua integrità
e la sua ferma determinazione nella lotta per la liberazione e l’indipendenza
di Cuba dagli spagnoli, tanto che egli ne ripercorse – almeno in parte – le
gesta.
Martí nacque nel 1853 da genitori spagnoli; di
straordinario ingegno e sensibilità, pubblicò il suo primo articolo all’età di
sedici anni e scrisse una lettera accusatoria contro il potere spagnolo che gli
valse sei anni di lavori forzati in una cava. Egli viaggiò in America Latina ed
Europa prima di trasferirsi nel 1880 a New York, dove ricoprì il ruolo di
console aggiunto per Uruguay, Paraguay e Argentina. Qui riunì i dissidenti
cubani per mettere in atto la rivoluzione e ottenere la liberazione dalla
Spagna; a questo scopo nel 1892 fondò il Partito Rivoluzionario Cubano, che
negli intendimenti di José Martí doveva rappresentare il fulcro di tutti gli
indipendentisti cubani. L’11 aprile dello stesso anno Martí sbarcò con un
manipolo di esuli cubani sulle coste orientali dell’isola – come avrebbe poi
fatto centosessantaquattro anni dopo Fidel Castro – insieme al generale Máximo
Gómez, comandante dell’esercito liberatore, ma il 19 maggio egli venne ucciso
durante la battaglia di Dos Ríos. La sua prematura morte per la liberazione di
Cuba creò il mito del martire e ispirò gli ideali di libertà di tutti coloro
che avrebbero negli anni a venire lottato per l’indipendenza dell’isola. E tra
questi vi fu anche Fidel Castro che prese in tutto e per tutto a modello
l’esempio del patriota cubano, non solamente nei principi e valori ispiratori
dell’azione rivoluzionaria, ma persino nella sua parte operativa di sbarco e
conquista dell’isola, tanto che in tal senso si possono chiaramente riscontrare
evidenti analogie. José Martí ha lasciato quindi un’impronta indelebile
sull’identità cubana e del resto ancor oggi in ogni luogo di Cuba statue e
busti a lui dedicati ne ricordano gli ideali e la sua azione rivoluzionaria.
Nel frattempo gli anni all’Avana presso il Collegio
di Belén scorrevano veloci per Fidel, che trovò nella capitale cubana una
propria dimensione, alimentando pertanto ulteriormente la sua leadership
rispetto agli altri compagni di studi, anche in virtù dell’ottimo rendimento
scolastico e delle sue prestazioni sportive, in modo particolare nella squadra
di baseball del collegio. In definitiva il Collegio di Belén rappresentò per il
giovane Fidel una vera e propria scuola di vita, che contribuì da una parte a
forgiare ancora di più il suo carattere e la sua personalità, dall’altra a
infondergli una grande sicurezza, rendendolo consapevole dei propri mezzi.
All’età di diciotto anni Fidel Castro conseguì il
diploma presso il Collegio gesuita di Belén e nell’ottobre 1945 si iscrisse alla facoltà di Diritto
dell’università dell’Avana, dove avrebbe potuto mettere maggiormente in
evidenza le sue capacità, non ultime quelle oratorie. Negli anni
dell’università Fidel cominciò ad avvicinarsi sempre di più alla politica,
anche perché nel frattempo ebbe modo di rendersi conto della difficile
situazione in cui versava il Paese. Quando – commentando i fatti politici con
gli altri studenti – egli interveniva, le sue accorate parole risultavano così
incisive che tutti stavano a sentirlo, tanto che in breve tempo divenne un vero
e proprio leader negli ambienti universitari d’opposizione al regime.
Fidel Castro cominciò così a mettersi in luce nelle
organizzazioni politiche studentesche, attirandosi non poche inimicizie per le
sue idee contro le maniere forti del presidente cubano Ramón Grau San Martín,
che non aveva esitato a usare la forza per eliminare gli avversari politici. Bande
armate, sostenute dal governo, attuavano infatti dei veri e propri regolamenti
di conti contro coloro che dissentivano e ormai il clima politico dell’isola
era divenuto insostenibile. Senza contare poi che il governo non faceva nulla
per porre rimedio alla difficile situazione economica, che stava sempre più
impoverendo la popolazione cubana. Per di più, la malavita statunitense, ormai
molto ben radicata a Cuba, aveva trasformato l’isola in un casinò e la
prostituzione si era diffusa ovunque.
Il Paese era continuamente vessato dalla corruzione
politica e amministrativa del governo del presidente Grau e dalla mafia
americana, che a Cuba aveva ormai molti interessi e traffici, tanto che dal 22 al 26 dicembre del 1946 all’Avana, presso l’Hotel Nacional, si riunirono tutti i maggiori boss
delle organizzazioni malavitose statunitensi.
A presiedere il vertice dei boss mafiosi vi era il
capo di Cosa Nostra Lucky Luciano, che con la scusa di una festa di gala in
omaggio al cantante e attore Frank Sinatra, suo amico, dopo aver praticamente
chiuso al pubblico l’hotel, invitò tutti i maggiori esponenti delle più
importanti famiglie malavitose degli Stati Uniti.
Il vertice – il cui vero scopo era quello di
decidere in merito al traffico degli stupefacenti, stabilendo la base per lo
smistamento proprio a Cuba – vide la partecipazione di ben cinquecento persone,
tra padrini e loro accoliti, tra le quali figuravano i mafiosi più temuti, come
Albert Anastasia, Frank Costello, Carlo Gambino, Vito Genovese, Joe Bonanno,
Willie Moretti, Tommy Lucchese, i fratelli Fischetti, eredi di Al Capone, e
Santo Trafficante.
Il capo riconosciuto di tutti i boss mafiosi era
comunque Charles Luciano, all’anagrafe Salvatore Lucania, soprannominato Lucky,
ossia Fortunato, che nel settembre del 1946 si trasferì dalla Sicilia a Cuba.
Attratto dal fascino dell’Avana, il capo di Cosa
Nostra dalla stanza 724, con vista sul Malecon, dell’Hotel Nacional gestiva gli
affari illeciti legati al gioco d’azzardo, al traffico di droga e alla
prostituzione. Lucky Luciano aveva quindi fatto della capitale cubana la base
operativa dei suoi interessi malavitosi.
Fidel Castro denunciò quanto stava avvenendo negli
organismi politici universitari. Egli seppe aggregare attorno a sé molti
studenti sia per la sua indubbia carica carismatica sia per le sue spiccate
capacità dialettiche, tanto che ben presto venne minacciato e invitato più
volte a desistere dai suoi propositi oppure ad abbandonare l’università.
Nel corso delle riunioni e delle assemblee alle
quali Fidel partecipava spesso citava a memoria il pensiero del patriota cubano
José Martí, che rappresentò un suo costante punto di riferimento sia nelle idee
sia nell’azione rivoluzionaria.
La sua intensa attività politica non sottrasse però
Fidel Castro ai suoi doveri di studente e all’attività sportiva nella squadra
universitaria di baseball, nella quale – in ragione della sua prestanza fisica
– ebbe modo di distinguersi, attirando su di sé gli occhi di diverse squadre
americane e tra queste i New York Giants, che nel 1949 gli offrirono un contratto da professionista, che però
egli rifiutò non volendo abbandonare Cuba.
Il suo attivismo politico portò Fidel a trovarsi in
pericolo in diverse occasioni, in quanto il regime instaurato dal presidente
Grau lo vedeva come una seria minaccia per il seguito che sempre più aveva tra
gli studenti, a maggior ragione quando egli aderì al Partito del Popolo Cubano,
meglio noto con il nome di Partito Ortodosso, fondato nell’anno 1947 da Eduardo Chibás.
Il 10 luglio
1946,
il vicedirettore dell’FBI
Rosen riferì di
aver ricevuto informazioni
dalla divisione di Los Angeles
che il mafioso
in esilio Charles Luciano si trovava
a Tijuana, in
Messico. I dintorni
di Tijuana erano
conosciuti come la ‘zona franca’
perché non era
necessario alcun permesso
turistico o legale
per entrare in
quella parte della
Bassa California al
confine tra Messico
e Stati Uniti.
Gli agenti dello
Special Intelligence Service
(SIS) dell’FBI furono
inviati per indagare.
Appartenevano a una
divisione d’élite dell’FBI
in tempo di
guerra incaricata di
rintracciare gli agenti
stranieri che rappresentavano una
minaccia per gli
Stati Uniti. Avevano
identificato circa 1.300
spie dell’Asse e
ne avevano perseguite
molte.
Con la fine
della guerra, divennero
una risorsa preziosa
e ricevettero la
missione di assicurarsi che
Luciano non tornasse
di nascosto negli
Stati Uniti.
Gli agenti dell’FBI perquisirono tutta
Tijuana, prestando particolare
attenzione ai luoghi
che Luciano amava
frequentare, come l’ippodromo,
i casinò, gli
hotel esclusivi e le discoteche
alla moda. Parlarono
con i gangster
locali e udirono
molte ‘soffiate’, ma non
approdarono a nulla. Ulteriori indagini
rivelarono che una in particolare derivava
da un titolo
apparso sul quotidiano
di Città del
Messico, Excelsior, il 26
marzo 1946, che
riportava la storia
‘Il vice zar intende
tornare in Messico’.
Il giornalista affermava
che due dei soci del mafioso alloggiavano in un importante hotel a Città del Messico per
stabilire Luciano nel
paese. Il giornalista
messicano udito dal SIS
dell’FBI non confermò
gli scagnozzi coinvolti
e affermò di
aver appreso la
storia da un
comunicato stampa proveniente
dall’Associated Press negli Stati Uniti.
Un
successivo articolo dell’Associated Press citato
dal New York Daily News del 3
settembre affermava di aver ricevuto informazioni da Napoli secondo
cui Luciano stava ‘progettando un
ritorno al potere
nella malavita nordamericana’. Secondo la denuncia ‘picciotti napoletani avrebbero
riferito alla polizia italiana di aver procurato un
passaggio illegale verso il
Messico su una nave mercantile’.
In ogni caso
Luciano era scomparso,
non essendo stato
più visto nelle sei settimane precedenti la sua
comparsa a Salerno. Gli agenti della Richiesta investigativa criminale
dell’esercito americano aggravarono le voci
concordando privatamente che ‘lo è’ (cioè… è un nostro agente).
All’inizio
del 1947, il vicedirettore dell’FBI Rosen approvò un memorandum in cui affermava
che Luciano era stato individuato da due agenti dell’FBI
SIS l’8
febbraio a L’Avana,
Cuba, all’ippodromo dell’Oriental
Park: stava chiacchierando
con vari turisti
americani e residenti cubani seduto
a un tavolo
del Jockey Club. Tra i cubani che riconobbero e parlarono con Luciano c’era un ricco commerciante di
zucchero cubano e membro di una famiglia
cubana socialmente importante. Luciano
viaggiava sotto il nome di Salvatore Lucania e aveva ottenuto il
visto tramite un
deputato cubano che
aveva interessi finanziari
nell’ippodromo locale e
nel casinò dell’Hotel
Nacional. Cuba era il parco
giochi perfetto per Luciano. A un’ora
di volo da
Miami, Meyer Lansky ne esplorava le numerose attrazioni
fin dall’inizio degli anni ’30.
Con la crescita dei voli aerei più economici e disponibili,
capì che era
la destinazione perfetta
per i turisti
americani benestanti a cui piaceva
giocare d’azzardo e
dilettarsi in piaceri
illeciti. A tal
fine, investì una
grande quantità di
denaro della malavita
nell’acquisizione di beni commerciali. Joseph
‘Doc’ Stacher era
un vecchio socio
di Lansky e
fu strettamente coinvolto
nell’operazione cubana.
Lansky
disse che avevamo
bisogno di un
posto sicuro dove
mettere i soldi
del contrabbando, ricorda
Stacher. ‘Il nostro
problema più grande
è sempre stato
dove investire i
soldi. Non piace
a nessuno di noi portarli
in Svizzera e lasciarli
lì solo al tasso stabilito d’interesse.
Ciò che Lansky suggerì fu che ognuno ‘di
noi’ versi 500.000 dollari
per investirli nel
gioco d’azzardo all’Avana’.
Luciano
e Siegel, più
alcuni altri mafiosi,
misero ciascuno il
loro mezzo milione
di dollari nel
piatto e Lansky
portò i soldi
al dittatore militare
cubano Fulgencio Batista in cambio
della garanzia di un reddito compreso tra 3 e 5 milioni di dollari all’anno, Batista protesse il monopolio sui casinò dell’Hotel Nacional e dell’Oriental Park Racetrack,
gli unici due
posti a Cuba in cui il gioco d’azzardo
era legale. Sembrava che la folla avesse
saccheggiato il proprio resort nei
Caraibi.
Ma nel 1944,
subentrò un nuovo presidente, il dottor
Ramón Grau San Martín, e il sindacato criminale cubano unì
il potere finanziario con stretti contatti politici che alla fine avrebbero potuto
mobilitare l’esercito per
proteggere i propri
interessi. Sempre accoglienti
verso gli investitori esterni, i mafiosi
cubani non erano
completamente in soggezione
nei confronti di
Lansky e dei
suoi associati mafiosi
ed erano ben
consapevoli di dove
si trovasse il
potere ultimo.
Il 15
febbraio 1947, sull’Havana Post apparve una
fotografia che mostrava
il cantante pop 32enne Frank
Sinatra al casinò dell’Hotel
Nacional mentre parlava con
il capitano Antonio
Arias, presidente del
casinò. Lo stesso giornale affermò che
il 23 febbraio
Lucky Luciano fu visto in
discoteca dal giornalista
di gossip di
New York Robert
C. Ruark con
Frank Sinatra e
Ralph Capone, fratello
del defunto Al Capone.
Quando fu avvistato per la prima volta,
Luciano disse al giornalista dell’Havana Post:
‘È terribile, sono venuto qui per vivere tranquillo e ora tutto questo mi esplode in faccia’.
Continuò affermando che erano
soldi risparmiati e
aveva la capacità
di andare d’accordo
con chiunque: era socialmente utile!
Spinta dalla pubblicità indesiderata, la
polizia segreta cubana arrestò
Luciano per interrogarlo mentre
sorseggiava un caffè in un bar
del Vedado. La polizia
cubana rivelò che Luciano aveva 4.000 dollari quando arrivò
in aereo in ottobre
e ne aveva ancora 1.000 nel suo conto
bancario, quindi supponevano che
ricevesse un reddito da qualche
parte. Il gossip di Ruark continuò con
tutto il suo clamore riservato al popolare cantante che accompagnava
Luciano.
‘Sono francamente perplesso sul motivo per cui Frank
Sinatra, il magro dandy e il feticcio dei
milioni sporchi’, scrisse, ‘scelga di
trascorrere le sue vacanze in compagnia di famigerati agenti di polizia
condannati e di vari teppisti nei lussuosi bassifondi di Miami. Naturalmente
questi non sono affari miei. Se Sinatra
vuole unirsi a gente del calibro di Lucky Luciano, il ruffiano castigato e
deportato permanente per conto degli Stati
Uniti e la loro Compagnia di spettacolo, sembrerebbe convalidare che l’ispirazione
artistica di Sinatra sia una questione da discutere, oltre che con gli addetti
del Teatro e le sue repliche, anche con i milioni di ragazzi che vivono grazie
ad ogni suo belato’.
(L. Zerbino & T.Newark)