venerdì 24 febbraio 2023

MISTICISMO o REALTA' UNIVERSALE

   







Da precedenti capitoli 


circa gli Iceberg





 

Il misticismo appare decisamente diverso nell’analisi praticata dalla scienze sociali. I fenomeni mistici vi vengono trattati come ‘oggetti’ conformi alle regole di ogni disciplina: la psichiatria, la storia o l’etnologia. Se, da questo punto di vista, si esaminano le trasformazioni che la mistica di un tempo subisce e, reciprocamente, le dislocazioni che, anche in questa forma alterata, essa introduce nelle nuove scienze, tre processi sono particolarmente significativi: a. l’assegnazione dei fenomeni mistici ad alcune regioni del sapere piuttosto che ad altre e gli effetti che vi producono; b. i transiti che fanno passare da una disciplina ad un’altra la definizione formale di questo ‘oggetto’ sfuggente; c. da ultimo, la messa tra parentesi dell’esperienza mistica da parte dell’attività che prende sul serio il compito di darsi un oggetto scientifico. 

 

Non pretendo di tracciare una storia dell’assimilazione scientifica della mistica (storia che inizierebbe con il progetto di colonizzarla e che si concluderebbe con la necessità di eliminarla) – sarebbe una caricatura –, ma suggerire una ‘storicità’ singolare: le trasformazioni della mistica, prodotte dalle discipline contemporanee, hanno nondimeno effetti propri, come se, nella stessa cornice che li muta in oggetti del sapere, i frammenti di una ‘scienza selvaggia’ mantenessero qualcosa di irriducibile.




 Solitamente, i fenomeni mistici vengono ospitati nelle discipline che riguardano la vita ‘individuale’. Stephen Sharot lo constatava recentemente:

 

È stata accordata poca attenzione ai contesti sociali del misticismo […]. È difficile trovare una sociologia del misticismo.

 

 Prescindendo dalle celebri analisi di Ernst Troeltsch e di Max Weber, nate da un confronto con lo storicismo tedesco, la mistica è stata generalmente immessa nella psicologia individuale, soprattutto patologica, i cui lavori, d’altro canto, sono stati privilegiati dalla filosofia. È possibile meravigliarsene, non solo a motivo di quanto costituisce la documentazione, ma soprattutto perché l’esperienza mistica, passata o presente, si offre di primo acchito sotto figure sociali: ‘scuole’ e gruppi, relazioni tra ‘maestro di verità’ e discepoli; reti di comunicazione e trasmissione (orale, scritta, gestuale, itinerante) che passano attraverso le filiere di famiglie, genealogie, ambienti, legami culturali e commerciali, ecc.; modelli di organizzazione (cenobitiche o eremitiche – poiché anche l’eremitismo costituisce una forma sociale) e protocolli di conversazione (confessioni, ammissioni, ‘direzione spirituale’); procedure di prova e di riconoscimento (attraverso l’ascesi, i miracoli, le guarigioni, il pellegrinaggio, ecc.); codificazioni sensoriali, alimentari, sessuali e linguistiche; tecniche di rappresentazione, di concentrazione o di ‘vuoto’ mentale; economie d’onore, di fedeltà, o di beni materiali scambiati contro valori simbolici, ecc.

 

Come mai, dunque, tutta questa esperienza è stata massicciamente classificata nella psicologia e trattata sotto la forma di fenomeni individuali?




Che il suo accesso allo statuto di oggetto scientifico sia associato alla sua de-socializzazione e alla sua de-politicizzazione, è anzitutto un effetto della storia. Per molto tempo la mistica non è stata un affare privato o individuale. Lo è divenuta nella misura in cui le credenze che aveva radicalizzato, puntando in maniera assoluta su di esse, smettevano di definire la tessitura del mondo vissuto. Un tempo, poiché in questo modo isolava i postulati di un universo, ha senza dubbio contribuito a separarli dalla realtà che fino a quel momento avevano fondato o, almeno, ha contribuito a manifestare il loro esilio progressivo alla larga dalle lotte quotidiane. Perciò spesso è stata accusata di essere ‘atea’, cosa che, nel lessico dell’epoca, significava sottrarre all’istituzione religiosa o civile il diritto di accreditarsi in nome delle sue origini o del suo fondamento.

 

A questo proposito, rimprovero già rivolto al cristianesimo nascente, l’‘ateismo’ è essenzialmente un crimine contro le autorità stabilite. Esso interessa la loro credibilità più che l’esistenza di Dio. Ogni Chiesa, allora, ne accusa quelle che scalzano la sua legittimità.

 

La mistica raggiunge proprio questo punto, in un grande dibattito storico sulle ‘autorità’. Nei secoli XVI e XVII, le poste in gioco sono fondamentalmente politiche, e le strategie che organizzano nuovamente i dispositivi di potere animano ovunque i percorsi del sapere in azioni intraprese al servizio di una riforma attraverso la produzione di metodi, utopie e pedagogie.




 Nel pasticcio delle istanze che compongono allora una sorta di gioco a tre termini – il principe (un testimone sacro dell’ordine cosmico), le istituzioni civili e religiose (una realtà instabile della storia) e ‘l’anima’ (un principio trascendentale) –, i ‘santi’ praticano una riduzione, ai loro occhi giustificata dalla ‘corruzione’ delle istituzioni, che tende a privilegiare il faccia a faccia (già biblico e tradizionale) del re e del profeta, del politico e del mistico, o del ‘principe’ e dell’ ‘anima’.

 

In una congiuntura che frammenta e sottomette spesso le Chiese, e che accentua smisuratamente (soprattutto nel XVII secolo) la natura quasi divina del Re, sono innumerevoli le forme che assume l’incontro tra queste due figure sociali, dall’appello di Teresa d’Avila a Filippo II perché sostenga la fondazione del Carmelo contro le autorità religiose, fino all’inquietudine quasi superstiziosa manifestata da Luigi XIV (nondimeno gratificato, come dice, di ‘ispirazioni’) nei confronti di oscuri complotti quietisti. È in gioco l’autorità e non la realtà del potere. Si tratta di una politica del credibile. Dall’Inghilterra alla Spagna, attraverso il confronto dei mistici con il potere che congiunge cielo e terra, separando dal potere un principio trascendentale o etico della società si configura una forma spirituale di quanto diverrà il ‘cittadino’. Già il quietismo e, con la sua prossimità, Fenelon, lo testimoniano.




 All’inizio del XX secolo, almeno in Europa occidentale, questa politica della mistica o dell’‘anima’ è compiuta. Si trasferisce nella sfera privata, sostituita sulla scena pubblica da altre esperienze e altri linguaggi. La psicologia, dunque, la raccoglie laddove la storia la relega. D’altro canto, Bergson e anche Husserl non si sbagliavano, acquista un ruolo dominante nei saperi relativi a una società ormai fondata sul postulato individualista. Tratta le unità che abbinano un’economia liberale e istituzioni democratiche. Se la storiografia promuove un discorso collettivo della nazione, della classe o della piccola patria, la psicologia – chimica dell’umano – scruta i meccanismi ‘elementari’ della vita sociale e punta alla loro razionalizzazione.

 

Costituisce il laboratorio centrale di una nuova politica.

 

È dunque a lei che spetta il compito di spiegare, nei termini di una problematica ancora pioniera, i fenomeni della mistica divenuti marginali se non addirittura aberranti. Non stupisce che tali fenomeni progressivamente dipendano dalla patologia, ramo d’élite in cui, in nome della psicologia e della medicina scientiste, ci si applica per comprendere e curare ciò che ‘resiste’ agli sviluppi della Ragione. Nel 1871, per il Dott. Michéa, non è poi così lontano il tempo in cui l’èstasi, ‘che è sempre uno stadio patologico’, non era del tutto entrata nel girone della patologia’.




 Al volgere del secolo seguente, essa vi rientra del tutto, con l’ebbrezza, la levitazione e molti altri ‘turbamenti’, dapprima sotto la categoria di ‘manie’ (‘teomanie’, ‘demonomanie’, ecc.) che designano zone anomale ancora da esplorare per scoprirvi prima ‘affezioni’ maligne e, in seguito, ‘costituzioni’ patogene. È la storia che fornisce la cornice in cui si inscrivono ‘osservazioni’ vieppiù precise, con una notevole semiologia spesso ineguagliata da allora.

 

Altro elemento determinante in queste analisi: il loro carattere oggettivo. Una sagomatura anatomica dei fatti permette di reperire il loro combinarsi e di stabilire tabelle, ma le sottrae alla loro funzione di essere il lessico di un linguaggio parlato e di inscriversi in pratiche interrelazionali in cui lo stesso osservatore si trova coinvolto. Non sorprende che la concezione ‘patologica’ di questi fenomeni isolati del processo interlocutorio raggiunga, per molti aspetti, la critica – così presente nei mistici dei secoli XVI e XVII – degli ‘stati’ (visioni, estasi, ecc.) ai quali lo spirituale si arresta, come se fosse ‘ciò’ l’esperienza divina, e che, per il fatto di essere così protetti dall’oltrepassamento originario (‘non è né questo né quello’), divengano ‘malattie’ dell’anima.




Colpisce, reciprocamente, che l’osservazione psicopatologica, quando è sufficientemente lunga e attenta da lasciar apparire gli effetti dello scambio tra soggetti nel loro movimento, prenda di nuovo l’andamento di una ‘direzione spirituale’ – cosa che colpiva già Freud. Così la celebre opera De l’angoisse à l’extase (1926), dedicata da Pierre Janet a questa Maddalena che, dice, ha seguito per ventidue anni. Analizzata come un caso di ‘astenia da costituzione’, è una strana ‘mistica’: nata in una famiglia borghese del nord della Francia, partita a diciotto anni per condividere in Germania la vita del proletariato (1872, dopo la guerra del 1870 e la Comune), poi vagabonda, operaia occasionale e più volte imprigionata a Parigi, dove rifiuta qualunque legame con altri vicini che non fossero ‘miserabili’, infine arrestatasi a Bichat, a Necker e alla Salpêtrière (1896). Affascina il suo osservatore, perché scrive più di duemila pagine indirizzate a ‘padre mio’. Pia, estatica ma allergica ai sacerdoti, ripristina sulla scena stessa della psichiatria i dialoghi mistici in cui il ‘direttore’, fosse Francesco di Sales o Fénelon, diveniva il discepolo e l’interprete di colei che dirigevano. Le novecento pagine che Janet dedica alla scienza e a Georges Dumas tradiscono la conversione dell’oggetto patologico in racconto di una relazione il cui carattere dialogico è velato appena dal pudore del medico. È in ospedale che, malata simile a tante eroine di Bremond, la mistica parla.




Il fenomeno si muove e si trasforma nel caso che gli è stato assegnato. Occorre allora circoscrivere formalmente quanto si intende per ‘mistica’. Lavoro di Sisifo: l’oggetto non smette di ricadere al di fuori del luogo teorico in cui lo ha situato una definizione. Il dibattito che da mezzo secolo occupa la riflessione anglo-americana è, a riguardo, tipico. Semplificato all’estremo, esso mira a determinare quali elementi possono ricapitolare tante esperienze diverse e a quale livello di analisi riconoscere cosa le unifica. L’impresa comincia, ovviamente, con investigazioni psicologiche. In una tradizione americana che ha sempre considerato il ‘sentimento religioso’ come maggiormente fondamentale o ‘elementare’ delle diverse Chiese in cui può trovare alloggio, linguaggio e applicazioni pratiche, William James caratterizza ‘l’esperienza mistica’ attraverso quattro tratti specifici: l’ineffabilità, la qualità noetica, la forma transitoria e la passività – descrizione di una fenomenologia più rigorosa della riduzione successivamente praticata da James Leuba, che riconduceva i fatti mistici all’estasi e quest’ultima ad una ‘incoscienza’ compatibile con ogni sorta di ideologizzazioni secondarie conformi al paesaggio culturale del rapimento. 

 

Quando, nel 1957, Zaehner riprende questa descrizione, ne fa il riscontro di un teismo e l’emblema sperimentale di una presenza divina. Stabilendo dei caratteri che suppone essere costanti, crede di isolare un fenomeno che attraversa le antinomie istituzionali, le diversità socio-storiche e perfino l’opposizione tra ‘sacro’ e ‘profano’. Vi riconosce dunque la manifestazione positiva di una realtà universale. È prendere un’interpretazione per la Cosa stessa. Lo scivolamento è significativo: la descrizione fenomenica di James viene trasformata da Zaehner in indicatore e prova di uno spiritualismo: essa assicura all’unità la vittoria sulle differenze (‘abissali’ per R. Otto) che separano tra di loro le intuizioni mistiche.




La stessa concezione monista di un’esperienza identificata con un ‘nucleo universale’ si ritrova in W.T. Stace o, nonostante le sue riserve nei confronti di Zaehner, in Ninian Smart, per il quale la mistica è ‘ovunque fenomenologicamente la stessa’ benché si debba tener conto di varianti ‘estrinseche’ attribuibili all’auto-interpretazione dei visionari nei propri contesti socio-culturali.

 

In quanto mistica, l’esperienza non appartiene né alla storia, né alla sociologia. Antibabelica per essenza, restituisce all’Uno il suo linguaggio primo.

 

Contro tale tendenza, già criticata da R. Otto e condotta a supporre la mistica ‘senza patria’, Steven Katz ha fatto ‘una requisitoria per il riconoscimento delle differenze’: egli rifiuta in pari misura la possibilità, da parte di un certo comparatismo, di assimilare il linguaggio di una tradizione spirituale a quello di un’altra, e la possibilità, per una certa fenomenologia, di postulare che una medesima ‘intenzionalità linguistica’ nei testi garantisca che essi mirano allo stesso ‘oggetto intenzionale’.

 

Attraverso la via di un’analisi del linguaggio, egli restituisce la mistica alla sua pluralità storica e riporta alla differenza lo statuto di non essere ‘estrinseca’ ma essenziale.

 

Ma allora cos’è questa mistica, contesa tra Dio e la storia che essa pretende di riconciliare sperimentalmente?

 

Bisogna crederle, e in che modo, quando si dichiara intuizione dell’assoluto in maniera singolare?




I dibattiti teorici in merito la pongono, suo malgrado, tanto da una parte, quanto dall’altra.

 

Secondo quali criteri?

 

È in nome di una filosofia del linguaggio, e di Wittgenstein, che Steven Katz rifiuta l’universalizzazione di cui le proposizioni mistiche sarebbero l’oggetto.

 

È significativo che in trent’anni la discussione sia passata dal terreno della psicologia a quello della linguistica, attraverso la mediazione di una fenomenologia a cui si accordava la capacità di enunciare la struttura stessa di un’esperienza fondamentale. Questa struttura, infatti, non specifica che una forma, ridotta alla fine a due caratteri: il paradossale e l’ineffabile. Si hanno così, alla fine, due regole essenziali proprie di una grammatica del discorso mistico. Esse non riguardano più né la storia né l’ontologia. Designano un protocollo di linguistica al di fuori del quale non sembra esserci espressione mistica, ma che non dice niente di ciò che è l’esperienza stessa. Questa determinazione, necessaria ma non sufficiente, accede a un valore universale solo se separata dall’utilizzazione (use in inglese) che ne fa il soggetto mistico, cioè dall’atto singolare che questi performa.




Ritagliando una forma di sapere che contrasta con la forma usuale delle nostre, designa almeno, come principio sollevato da un a priori monista o ontologico, un tipo di discorso – un altro ‘gesto del pensiero’ nella lingua. Anche se non è sicuro che tale forma sia propria al solo discorso mistico, essa traccia una ‘maniera di dire’ ad un tempo estranea ai nostri modi scientifici di ragionamento o di verifica e completamente omologa alla definizione essenziale che nei secoli XVII e XVII la scienza mistica dava di sé caratterizzandosi (lungo un altro registro linguistico) come un ‘modus loquendi’. Ancora una volta, l’oggetto passato sembra tornare, come un fantasma, sulla scena scientifica, ma altrove e altrimenti da come si pensava.

 

La difficoltà di circoscrivere formalmente l’esperienza mistica provoca una strategia differente che consiste nell’eliminare ciò che non può essere discusso. Ogni attività scientifica deve rinunciare a mantenere il reale negli oggetti che vi ritaglia. Il suo rigore si fonda sui limiti che si pone. Una pratica dell’oblio sostiene dunque la produzione di conoscenze. Forse, dopo tutto, si tratta solo di un’astuzia del cacciatore che allestisce con cura le trappole in cui rimane preso quanto non può essere catturato, ma tale astuzia è anche, reciprocamente, quella delle cose, accadute ben prima che le si cerchi, e che insinuano nei testi (e anzitutto in un modo di scrivere) mille maniere di sopravanzamento o di aggiramento di ciò che affermano di controllare. Praticare l’oblio non è così semplice. E dunque nemmeno diagnosticare quello che viene effettivamente omesso da uno studio scientifico.




Analizzata, osservata e trattata da numerose ricerche, la mistica infesta già il lavoro scientifico. Aspetti di quanto consideriamo un oggetto passato si rivelano, come per anamorfosi, attraverso gli echi che desta nel campo dei nostri saperi, attraverso le domande alle quali il suo studio presta un linguaggio. Si deve uscire dall’epistemologia che opponeva a un soggetto del sapere i suoi oggetti di studio. La strana storicità della mistica, all’interno stesso dei discorsi che pretendono di conoscerla, obbliga ad elaborare un altro modello di analisi al quale l’esame della letteratura scientifica contemporanea servirebbe da introduzione.

 

Mi sembra, in effetti, che sia possibile analizzare la letteratura mistica come un campo, definito da un insieme di positività storiche, in cui si effettuano e si tracciano operazioni mistiche.

 

In altri termini, la scienza mistica sarebbe costituita dai diversi modi sui quali tali operazioni si inscrivono nei reticoli storici del sapere, del linguaggio del corpo e delle istituzioni proprie di un’epoca e di un ambiente. Ogni testo o ogni documento (poiché siamo obbligati a lavorare su di essi) costituisce un teatro che il lessico e la sintassi di un momento della storia organizzano, ma in cui si marcano, come in un corpo intaccato, azioni singolari. Si tratterebbe di lasciare che queste operazioni si inscrivano nei luoghi che formano, e di tentare di specificarne le forme proprie, a cui aderirebbero i mistici quando elaborano la loro scienza.




Da qui, si articola essa stessa sulla storia, oggi si deve dunque poter riconoscere nei testi di questa scienza una scrittura che è la sua ‘maniera di fare’ – come nei laboratori ci sono ‘manipolazioni’ specifiche. Ogni documento mistico è anch’esso un laboratorio in cui gesti specifici si descrivono come quelli di una danza sulla scena.

 

Un modello, in questo senso, ci è proposto da G.G. Granger se, lasciando da parte quanto riguarda l’individuazione nel suo Essai d’une philosophie du style (1968), se ne trattiene il progetto di una stilistica della pratica scientifica, vale a dire la possibilità di isolare in un’opera il suo proprio stile, questa strutturazione latente e vissuta dell’attività scientifica stessa in quanto costituisce un aspetto della pratica.

 

Così come esistono stili scientifici (euclideo, cartesiano, vettoriale), esistono stili mistici anch’essi indissociabili da un’estetica. Da qui, allo stesso modo, si ritrova la pertinenza della definizione che la scienza mistica dava della sua iscrizione nella storia. La mistica non ha un proprio: è un esercizio dell’altro in rapporto a una posizione data; la mistica è caratterizzata da un insieme di operazioni specifiche in un campo che non è il suo – attraverso una maniera di procedere o di dire.

 

Con storiografia intendo lo studio storico, la scrittura della storia, per distinguere dal suo oggetto (la storia) l’analisi che ne viene compiuta. 

(Michel de Certeau, Fabula Mistica)









mercoledì 22 febbraio 2023

IL PRIMO DIO

 










Precedenti capitoli: 












Scavo nella memoria,
scavo la zolla,
scrivo con l'aratro il sogno nascosto
confuso con il passato.
La pietra assume visione
di un altro Dio,
per tanti è solo un incubo
mal scolpito.
La pietra mi racconta
un'altra visione,
coniata nel profilo di una moneta,
nella giara antica dove la tomba
l'ha restituita.
Racconta un diverso amore
e la terra di un altro colore.
Racconta la gloria di un altro peccato,
racconta la storia di un altro Dio,
forma la statua di un altro oracolo.
Racchiuso nella pergamena di un filosofo,
raccolto dalla parola di un'astronomo,
raccontato per bocca di uno storico,
intuito dalla mente di un matematico.
(G. Lazzari, Frammenti in Rima; Il Primo Dio 12/3)












... Conferme sostanziali a quanto detto finora troviamo nella teoria dei Neopitagorici
dichiarati, di coloro di cui, seppur approssimativamente e parzialmente, conosciamo
la collocazione storica, la produzione teorica e soprattutto l'appartenenza al neopita-
gorismo.
In tutte le trattazioni documentanti il monismo trascendenstico neopitagorico e la su-
bordinazione del principio diadico alla Monade  suprema, è citato innanzitutto un pas-
so, riferibile a Moderato di Gades, il passo in questione ha costituito un rovello per i
critici, sia sul piano testuale, sia sul piano della storiografia filosofica.




"Sembra che i primi fra i Greci ad avere questa concezione della
materia siano stati i Pitagorici e, dopo di loro, Platone, come an-
che Moderato attesta.
Costui infatti, seguendo i Pitagorici, dimostra che 'il Primo Dio' è
al di sopra di ogni essere e di ogni essenza; dice poi che il 'secon-
do Uno', che è l'essere in senso assoluto e l'intelligibile, sono le
Forme, mentre il 'Terzo Uno', che è quello in cui consiste l'anima
partecipa al Primo Uno e alle forme e che la natura che viene ul-
tima dopo questo (dopo il Terzo Uno), ossia la natura delle cose
sensibili, non partecipa di quelli, ma riceve il suo ordine per un
riflesso di quelli, poiché la materia delle cose sensibili è l'ombra
del non essere che si trova in primo luogo nella 'quantità' (= nel-
la materia intelligibile) ed è ancora inferiore a quello, derivando
da esso".




Al culmine della gerarchia ontologica qui presentata figurerebbe dunque un Uno
assolutamente trascendente, simile, si nota talora, al Bene Platonico, per il suo
essere, e verosimilmente d'altronde sopranoetico.
'Dopo' questo, viene un 'Secondo Uno', Intelligibile e sede delle Forme: non c'è,
nella descrizione di esso, nessuna espressione che ne allarghi il concetto oltre
quello del paradigma del 'Timeo', che cioè consenta di parificare questo 'Secon-
do Uno' al Dio aristotelico o a quello medioplatonico, in quanto Intelligente, o
nous, oltre che intelligibile o noetòn, e che dunque trasformi le idee in noèma-
ta divini.
E tuttavia, dato il parallelo consolidarsi di queste nozioni nella teologia medio-
platonica e nella stessa letteratura preparatoria al neopitagorismo, è effettiva-
mente probabile che questo 'Secondo Uno' di Moderato sia nous e che le Forme
costituiscano i suoi pensieri.




Il 'Terzo Uno' infine è la sede dello psichico e dunque l'Anima del Mondo.
Essa è esplicitamente legata ai primi due (partecipa al 'Primo Uno' e alla For-
me) da un rapporto di metessi, che può perciò forse considerarsi rapporto in-
tercorrente fra 'tutti e tre' i primi livelli del reale (anche il 'Secondo Uno' parte-
ciperebbe del 'Primo'): invece la physis, il complesso delle cose sensibili, si pre-
cisa, non partecipa dei primi tre livelli, ma ne 'riflette' solo l'ordine.
E' dunque ravvisabile qui effittivamente 'una gerarchia dell'essere su tre livelli -
e perfino su quattro, se includiamo la natura - in cui il livello più basso dipende
in qualche modo da quelli ad esso superiori'; già fin qui la teoria riferita assomi-
glia molto al sistema triadico delle ipostasi plotiniane: ma la somiglianza risalta
di più, se si legge il seguito del passo, in cui Simplicio, per il tramite di Porfirio
ed in un modo che rende piuttosto difficoltosa una distinzione fra le dottrine di
costui e quelle di Moderato, riferisce una teoria della materia.



E' questa seconda parte d'altronde che risalta il monismo di Moderato, nella
sua manipolazione dell''originario dualismo', e che emerge forse il suo mate-
matismo.
Porfirio, continua dunque Simplicio, cita Moderato e riferisce la seguente teo-
ria della materia, la quale esplicita le ostiche ultime battute della prima parte
del passo (la materia delle cose sensibili è un'ombra del non essere che si trova
in primo luogo nella 'quantità'): 'volendo il Lògos dell'unità come da qualche par-
te dice Platone, produrre la generazione degli esseri a partire da sé, attraverso
un processo di privazione separò da sé la 'Quantità', sottraendo da questa tutti
i propri lògoi e le proprie forme.




Nel seguito della sua relazione, Porfirio-Simplicio riferisce il complesso di nomi
con i quali Moderato e Platone avrebbero chiamato la 'Matera/Quantità' e pre-
cisa che questa Quantità - cioè l'èidos che si concepisce sia privato di tutte le
forme che contiene - è paràdeigma della materia che è nei corpi: i Pitagorici e
Platone chiamavano anche questa materia quantità, intendendola come idea,
bensì appunto come privazione, dispersione, deviazione da ciò che è e dunque
come "male"; per questo, si conclude, la materia sensibile non è altro che una
deviazione dell'intelligibile.
A noi, ancora, non interessa tanto sottolineare l'effettiva somiglianza della dot-
trina con la teoria plotiniana della materia, quanto fare qualche considerazione
esplicativa sul processo di 'generazione' della 'Materia/Quantità' e sui tratti ma-
tematistici impliciti nella teoria.




L'elemento che 'genera' l'èidos 'Materia/Quantità', determinandola come priva-
zione di tutte le sue forme', è stato spesso identificato con il 'Primo Uno'; ef-
fettivamente, la possibilità di descrivere una 'comunanza del genere', ma una
gerarchizzazione del 'Primo Uno' e del 'Secondo Uno' ed una 'generazione' del-
la 'Materia/Quantità' a partire dal 'Primo Uno', accomunerebbe la teoria di
Moderato a quelle di Sesto Empirico e di Eudoro, i cui concetti sarebbero me-
glio esplicitati nella dottrina di Moderato: tutte indicherebbero una trasforma-
zione sostanzialmente simile del dualismo in monismo.




Molto si potrebbe d'altronde dire sui tratti matematistici di Uno-Dio Supremo,
capace di generare per privazione dei lògoi e delle forme un ente intelligibile
che è precisamente ipostatizzazione della 'Pura Quantità' ed ancora sulla confi-
gurazione matematistica di quegli stessi lògoi e di quelle forme.
In sintesi quindi, è ascritta a Moderato una gerarchia ontologica, con a capo un
pròtos hèn assolutamente trascendente (oltre l'essere e l'essenza), verosimilmen-
te identificabile con il Dio Primo, nozione alla quale lavorarono parallelamente i
Medioplatonici e già avevano lavorato gli autori di pseudepìgrapha e coloro cui
si rifanno le relazioni anonime sui Pitagorici.
Il 'Primo Uno' è legato da un rapporto di metessi al 'Secondo ed al Terzo Uno':
i documenti visti fin qui e d'altronde la successiva Introduzione Aritmetica' di Ni-
comaco mostrano come il neopitagorismo andasse sistemando la stessa relazione
genere-specie in rapporto unilaterale e gerarchico di pròteron-hysteron e non ab-
biamo ragione di escludere che tale fosse anche il tipo di rapporto, descritto co-
me metessi, intercorrenti fra i tre 'Uni' di Moderato.




Il 'Secondo Uno', sede delle forme-paradigma e forse dello stesso intelletto, ge-
nera e perciò subordina a sé la Materia Intelligibile, agendo dunque come già a-
givano la monàs descritta dal Poliistore e la pròte Monàs di Sesto Empirico. 
Questa 'generazione' è descritta come privazione delle proprie forme; come pri-
ma già accennato, sarebbe ravvisabile una caratterizzazione aritmetica in un'ipo-
stasi che dà luogo precisamente alla 'Quantità Pura', se privata delle sue forme:
il 'Secondo Uno' di Moderato potrebbe perciò essere modellato sulla monade arit-
metica che, come spiegherà Nocomaco è radice naturale e principio di tutti i
numeri, poiché è capace di produrli da sé.






Sto solo incidendo il mio monumento,
sto solo scavando nella memoria,
sto solo parlando... con l'opera perfetta.
Sto solo scrutando lo sguardo di Dio,
il Primo bello come un sogno antico,
ma nascosto agli occhi del loro...
Secondo Dio.
Mentre domanda arte e bellezza
al tempo che lo vuole spettatore,
nascosto alla vista e alla memoria
in una maschera della storia.
Sto solo imparando il Tempo mio,
nell'attimo senza Tempo
... di un altro Dio.
(G. Lazzari, Frammenti in Rima; Il Primo Dio,
Secondo Dialogo 13/4)







Diversa appare invece, a prima vista, la teologia dell'altro grande e più platoniz-
zante esponente del neopitagorismo.
Numenio di Apamea: la riproduzione di teorie platoniche, tradizionali ed orto-
dosse, sembra infatti portarlo lontano dal monismo e dal matematismo teologici
di altri Neopitagorici. Il 'Commento al Timeo' di Calcidio ascrive infatti al nostro
filosofo un dualismo chiaro quanto quello di Plutarco e tanto meditato da ripro-
durre la distinzione pitagorico-platonica del Dio/Monade/Bene e Materia/Diade/
Male e da considerare contraria alla natura stessa dell'Uno la generazione Dia-
de/Materia.
Questo nucleo di platonismo ortodosso, come inoltre nega l'essere ai quattro e-
lementi, ai sensibili ed alla materia e lo assegna, invece, a ciò che è incorporeo
ed intelligibile, eterno ed 'identico', del pari attribuisce ai mathèmata una funzio-
ne solo propedeutica alla conoscenza del Primo Principio: l'assolutamente Bene
s'intende soltanto se ci s'intrattiene con esso 'da soli a solo' (e sempre contrap-
posti al male assoluto), dopo essersi allontanati dal sensibile, ma è necessario
un metodo; la cosa migliore è dunque, dice Numenio, nutrire un entusiasmo gio-
vanile per le scienze e studiare i numeri per apprendere l'oggetto della scienza
suprema.




Sembra dunque si dia una distinzione ortodossamente platonica (ed antimate-
matista) tra sfera dei mathematikà e sfera dell'oggetto della conoscenza supre-
ma: lo studio dei numeri trae verso quell'oggetto, che non avrebbe di per sé u-
na natura numerica.
La teologia numeniana rivela però, ad un esame più approfondito, un monismo
ed un matematismo sostanzialmente simili a quelli di altri Neopitagorici. Essa
è forse dotata del medesimo fondamento storico della teologia di Plutarco.
Come Plutarco dualista in metafisica, Numenio è perciò sostanzialmente mo-
nista in teologia, del monismo caratteristico dei pagani del suo tempo, per cui
non ha senso affermare vi sia un solo Dio, quanto piuttosto che uno solo è il
Dio assolutamente Primo.




Documentano questo monismo le numerose affermazioni numeniane di una ge-
rarchia ontologica ordinata ed unitaria: a capo di essa c'è un unico Dio, che è
Padre, assolutamente Bene e, a differenza di quello di Moderato, Intelletto;
al di sotto di questo, vi è il Demiurgo, collegato e contrapposto alla Diade/Ma-
teria, il quale imita copia e contempla il Primo Dio ed è principio del divenire
e Creatore; Terzo Dio è il Cosmo stesso, quantomeno nel suo aspetto intelli-
gibile, nell'Anima buona che lo razionalizza e lo ordina.
L'impianto gerarchico della dottrina dei tre Dèi emerge innanzitutto quando,
escluso che il sensibile, generato e mutevole, sia il vero essere, Numenio am-
mette appunto che soltanto l'intelligibile incorporeo sia essere, esso che, al
contrario, è stabile ed immutabile, alieno da nascita, crescita e movimento
qualsiasi: 'per tal motivo', egli puntualizza, 'è correttamente apparso giusto
porre al primo posto l'incorporeo'.




La connessione fra teologia e visione gerarchico-seriale della realtà è posta
d'altronde in termini espliciti e generali, quando Numenio nota che 'colui che
desidera farsi un'idea del Primo e del Secondo Dio deve innanzitutto distin-
guere ciascuna cosa nel suo grado e nel suo ordine, o, ancora, quando egli
specifica che, nonostante l'attività demiurgica non sia affatto propria del
Primo Dio, ma del Secondo, se si guarda al complesso creato e se ne ricer-
ca il principio in senso forte, è a 'Ciò che preesiste che rimonta l'operare in
senso demiurgico'.
Il principio è nell'essenza, per Numenio come già per Nicomaco, per Modera-
   to e per i Pitagorici di Sesto, presbyteron o pròteron rispetto ai princi-
piati e la gerarchia unilaterale e seriale determinabile a partire dai sensibili
culmina in un unico principio, il quale, assolutamente pròtos, è in realtà ed
in senso forte Principio e Causa anche dell'attività propria e specifica dei
suoi causati (attività demiurgica).




Anche per Numenio d'altronde, come per Moderato, il rapporto fra Secon-
da e Prima Divinità è descrivibile come imitazione e non è perciò invero-
 simile che egli, come altri Neopitagorici, assimili mimesi e metessi ed
entrambe comunque ad una relazione di pròteron-hysteron: il Primo Dio
possiede di per sé, primariamente e pienamente, le caratteristiche (la
bontà, il nous) che il Secondo, essendo neòteros ed hysteros, ha solo
perché partecipa del Primo, o perché lo imita e copia.
Relativamente interessante per noi nel suo aspetto complessivo, la teo-
logia numeniana rivela il suo matematismo soprattutto se si focalizzano
alcuni caratteri della prima divinità (l'Intelligenza, la connaturalità del
bene, l'inconoscibilità, la semplicità, la stabilità, la trascendenza).
E' nel Primo Dio numeniano perciò che l'attività pensante si identifica
immediatamente con la produzione-presenza di noetà, mentre il Secon-
do - il quale pure ammette un'attività intellettiva - contempla semplice-
mente, e non produce, 'nel' e 'con il' proprio pensiero, quei noetà, ma
opera ordinando per loro tramite la Materia: per questo il Primo Dio
è pròtos nous, perché Esso solo pensa in modo originario e creativo.




Ogni carattere di questo Dio gli appartiene piuttosto in senso primario,
proprio e forte, è cioè immediatamente connaturato alla sua essenza:
in tal modo Esso è Essere-in-sé e soprattutto Bene-in-sé e differisce
dal Secondo Dio, che è essere in senso secondario e derivato e buo-
no solo per partecipazione; per questa connaturalità all'essere ed al
bene, il pròtos theòs è 'fondamento' e 'principio' di essere e di bene.
Il Secondo ed il Terzo Dio (il cosmo) potrebbero cioè essere per
Numenio non entità diverse dal Primo Dio, quanto piuttosto sue dif-
ferenti 'funzioni', ipostatizzate su livelli ontologici successivi e rese
simbolicamente con le immagini dei tre Dèi, del sovrano, del gover-
natore e dello stato, o, ancora, con quella del seminatore e del tra-
piantatore.




Come ora vedremo, il platonismo contemporaneo a Moderato, a
Nicomaco ed a Numenio non si rivela per parte sua immune da un'-
analoga tendenza alla matematizzazione della teologia.
A differenza dei Neopitagorici, i Medioplatonici non chiamano il Pri-
mo Dio Uno o Numero, né propongono gerarchie di Monadi, media-
trici fra l'Uno Primo ed il sensibile: i Medioplatonici assomigliano pe-
rò ai Neopitagorici quantomeno nella teorizzazione di un Principio
Primo divino, trascendente, spesso perciò ineffabile e conoscibile
solo intuitivamente, che è attività noetica e Causa, attraverso que-
sta, della sistemazione cosmogonica della Materia informe.
La teologia medioplatonica converge dunque con quella neopitago-
rica a confermare il recupero del trascendente dei primi secoli dell'-
era cristiana ed a spianare la strada alla grande teologia neoplatoni-
ca: simile nelle due tradizioni è in particolare un sostanziale moni-
smo (o monoteismo); Dio certamente non è per i Medioplatonici l'-
unico principio, né è l'unico ente divino: come Plutarco, Dio è però
appunto 'unico' nella sua primarietà (le idee gli sono subordinate) e
nella sua positività (Esso solo, e non certo la materia, è Causa for-
mante d'ordine e perciò di bene).




Il medioplatonismo si mostra ovviamente, meno del neopitagorismo,
erede di una generale utilizzazione metafisica del numero; eppure
anch'esso ribadisce un'esemplarità aritmetica nella teologia dell'età
imperiale, perché neppure il Dio medioplatonico sembra liberarsi
del tutto della caratterizzazione che lo parifica all'unità-principio-dei-
numeri, e che è lontana eredità del matematismo protoaccademico:
ciò emerge non tanto nei concetti teologici generali appena richiama-
ti, quanto piuttosto nella dottrina della trascendenza e dell'ineffabili-
tà divina ed in particolare in una delle viae a Dio fra le quali ricordia-
mo quelle degli 'Oracoli Caldaici'.
Per questi ultimi in particolare, l'atteggiamento fondamentale per
giungere a concepire un Dio assolutamente primo e trascendente è
una sorta di deviazione dai sensibili e di 'svuotamento' dalle impres-
sioni dei sensi (la figura, il colore, la grandezza): Numenio infatti rac-
comandava di allontanarsi dalle cose sensibili e dalla corporeità con
uno specifico allenamento nelle scienze esatte; gli Oracoli Caldaici
prescrivevano a loro volta, poiché Dio resta al di fuori della portata
dell'intelletto di tendere verso di Lui un intelletto vuoto di sensazioni
e Massimo di Tiro raccomandava di non pensare, in riferimento a
Dio.

(L. M. Napolitano Valditara, Le idee, i numeri, l'ordine)