domenica 29 ottobre 2023

UN PARADOSSO TUTTO DA COMPRENDERE!

 







Approfondimenti circa 


il Dio Straniero






Israele ha silenziosamente sostenuto la campagna dell’Azerbaigian per la riconquista del Nagorno-Karabakh, fornendo armi prima della fulminea offensiva del mese scorso che ha riportato l’enclave di etnia armena sotto il controllo azero. A dirlo sono alcuni funzionari ed esperti interpellati dall’Associated Press. 

 

Poche settimane prima che l’Azerbaigian lanciasse il suo assalto di 24 ore il 19 settembre, aerei cargo militari azeri hanno ripetutamente volato tra una base aerea israeliana meridionale e un campo d’aviazione vicino al Nagorno-Karabakh, secondo i dati di tracciamento dei voli e i diplomatici armeni, anche mentre i governi occidentali sollecitavano colloqui di pace.

 

I voli hanno scosso i funzionari armeni di Yerevan, da tempo diffidenti nei confronti dell’alleanza strategica tra Israele e l’Azerbaigian, e hanno messo in luce gli interessi nazionali di Israele nella regione in crisi a sud delle montagne del Caucaso.

 

‘Per noi è una grande preoccupazione che le armi israeliane abbiano sparato contro il nostro popolo’,

 

…ha dichiarato Arman Akopian, ambasciatore dell’Armenia in Israele, all’AssociatedPress. In una raffica di scambi diplomatici, Akopian ha detto di aver espresso nelle ultime settimane ai politici e ai legislatori israeliani l’allarme per le spedizioni di armi.

 

‘Non vedo perché Israele non dovrebbe essere nella posizione di esprimere almeno un po’ di preoccupazione per la sorte di persone che vengono espulse dalla loro patria’,

 

…ha dichiarato all’AP.

 

Il blitz di settembre dell’Azerbaigian con artiglieria pesante, lanciarazzi e droni - in gran parte forniti da Israele e Turchia, secondo gli esperti - ha costretto le autorità separatiste armene a deporre le armi e a sedersi a un tavolo di discussione sul futuro della regione.

 

L’offensiva azera ha causato la morte di oltre 200 armeni nell’enclave, la maggior parte dei quali combattenti, e di circa 200 soldati azeri, secondo i funzionari.

 

Ci sono conseguenze che vanno oltre l’enclave instabile di 4.400 chilometri quadrati. I combattimenti hanno spinto oltre 100.000 persone - più dell’80% dei residenti dell’enclave di etnia armena - a fuggire nelle ultime due settimane. L’Azerbaigian si è impegnato a rispettare i diritti dell’etnia armena.

 

L’Armenia definisce l’esodo una forma di pulizia etnica.

 

I ministeri degli Esteri e della Difesa israeliani hanno rifiutato di commentare l’uso di armi israeliane nel Nagorno-Karabakh o le preoccupazioni armene sulla partnership militare con l’Azerbaigian. A luglio, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha visitato Baku, la capitale dell’Azerbaigian, dove ha elogiato la cooperazione militare e la ‘lotta al terrorismo’ congiunta dei due Paesi.

 

Israele ha un grande interesse per l’Azerbaigian, che serve come fonte critica di petrolio ed è uno strenuo alleato contro l’Iran, arcinemico di Israele. È anche un lucroso cliente di armi sofisticate.

 

‘Non ci sono dubbi sulla nostra posizione a sostegno della difesa dell’Azerbaigian’, ha dichiarato l’ex ambasciatore di Israele in Azerbaigian, Arkady Milman. ‘Abbiamo una partnership strategica per contenere l’Iran’.

 

Sebbene Israele, un tempo povero di risorse, disponga ora di gas naturale in abbondanza al largo delle sue coste mediterranee, l’Azerbaigian fornisce ancora almeno il 40% del fabbisogno petrolifero israeliano, mantenendo auto e camion sulle sue strade. Israele si è rivolto ai giacimenti offshore di Baku alla fine degli anni ’90, creando un oleodotto attraverso l’hub di trasporto turco di Ceyan che ha isolato l’Iran, che all’epoca capitalizzava il petrolio che scorreva attraverso i suoi oleodotti dal Kazakistan verso i mercati mondiali.

 

L’Azerbaigian è da tempo sospettoso nei confronti dell’Iran, e non sopporta il suo sostegno all’Armenia, di religione cristiana ortodossa. L’Iran ha accusato l’Azerbaigian di ospitare una base per le operazioni di intelligence israeliane - un’affermazione che Azerbaigian e Israele negano.

 

‘Per noi è chiaro che Israele ha interesse a mantenere una presenza militare in Azerbaigian, utilizzando il suo territorio per osservare l’Iran’, ha dichiarato il diplomatico armeno Tigran Balayan.

 

Pochi hanno beneficiato delle strette relazioni tra i due Paesi più degli appaltatori militari israeliani. Gli esperti stimano che Israele abbia fornito all’Azerbaigian quasi il 70% del suo arsenale tra il 2016 e il 2020, dando all’Azerbaigian un vantaggio contro l’Armenia e stimolando la grande industria della difesa israeliana.

 

‘Le armi israeliane hanno avuto un ruolo molto significativo nel permettere all’esercito azero di raggiungere i suoi obiettivi’,

 

...ha dichiarato Pieter Wezeman, ricercatore senior presso l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, che segue le vendite di armi.

 

Secondo Wezeman, i missili a lungo raggio e i droni esplosivi israeliani, noti come “loitering munitions”, hanno compensato la piccola forza aerea dell’Azerbaigian, colpendo a volte anche in profondità nella stessa Armenia. Nel frattempo, i missili terra-aria israeliani Barak-8 hanno protetto lo spazio aereo dell’Azerbaigian abbattendo missili e droni, ha aggiunto.

 

Poco prima dell’offensiva del mese scorso, il ministero della Difesa azero ha annunciato che l’esercito ha condotto un test missilistico del Barak-8. Il suo sviluppatore, Israel Aerospace Industries, ha rifiutato di commentare l’uso da parte dell’Azerbaigian del suo sistema di difesa aerea e dei droni da combattimento.

 

Ma l’Azerbaigian si è entusiasmato per il successo dei droni israeliani nel tagliare le difese armene e ribaltare l’equilibrio nella sanguinosa guerra di sei settimane del 2020. Nel 2016 il suo ministro della Difesa ha definito un drone da combattimento prodotto dall’Aeronautics Group di Israele ‘un incubo per l’esercito armeno’, che quell’anno aveva appoggiato i separatisti della regione durante il conflitto tra Azerbaigian e Nagorno-Karabakh.

 

Il presidente Ilham Aliyev nel 2021 - anno di scontri mortali al confine tra Azerbaigian e Armenia - è stato ripreso sorridente mentre accarezzava il piccolo drone suicida israeliano “Harop” durante una mostra di armi.

 

Israele ha impiegato simili droni suicidi durante i micidiali raid dell’esercito contro i militanti palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

‘Siamo felici di questa cooperazione, che è stata di grande supporto e di grande beneficio per la difesa’, ha dichiarato all’AP l’ambasciatore dell’Azerbaigian in Israele, Mukhtar Mammadov, parlando in generale del sostegno di Israele all’esercito azero. ‘Non lo nascondiamo’.

 

In un momento cruciale all’inizio di settembre - mentre le diplomazie si affannavano per evitare un’escalation - i dati di tracciamento dei voli mostrano che gli aerei cargo azeri hanno iniziato ad affluire a Ovda, una base militare nel sud di Israele con una pista di atterraggio lunga 3.000 metri, nota come l’unico aeroporto in Israele che gestisce l’esportazione di esplosivi.

 

L’AP ha identificato almeno sei voli operati dalla Silk Way Airlines dell’Azerbaigian che sono atterrati all’aeroporto di Ovda tra il 1° e il 17 settembre da Baku, secondo il sito web di monitoraggio dell’aviazione FlightRadar24.com. L’Azerbaigian ha lanciato la sua offensiva due giorni dopo.

 

Durante questo periodo, l’aereo da trasporto militare Ilyushin Il-76 di fabbricazione russa ha sostato sulla pista di Ovda per diverse ore prima di partire per Baku o Ganja, la seconda città del Paese, appena a nord del Nagorno-Karabakh.

 

A marzo, un’inchiesta del quotidiano Haaretz ha dichiarato di aver contato 92 voli cargo militari azeri all’aeroporto di Ovda nel periodo 2016-2020. L’improvvisa impennata dei voli ha coinciso con l’intensificarsi dei combattimenti nel Nagorno-Karabakh.

 

‘Durante la guerra del 2020, abbiamo visto voli ogni due giorni e ora, di nuovo, vediamo questa intensità di voli che porta all’attuale conflitto’, ha detto Akopian, l’ambasciatore armeno. ‘Per noi è chiaro cosa sta succedendo’.

 

Il ministero della Difesa israeliano ha rifiutato di commentare i voli. L’ambasciatore dell’Azerbaigian, Mammadov, ha detto di essere a conoscenza dei rapporti ma non ha voluto commentare.

 

La decisione di sostenere un governo autocratico contro una minoranza etnica e religiosa ha alimentato un dibattito in Israele sulle politiche permissive di esportazione di armi del Paese. Tra i primi 10 produttori di armi a livello globale, solo Israele e la Russia non hanno restrizioni legali sulle esportazioni di armi basate su problemi di diritti umani.

 

‘Se c’è qualcuno che può identificarsi con la continua paura degli armeni del Nagorno-Karabakh di subire una pulizia etnica è il popolo ebraico’, ha dichiarato Avidan Freedman, fondatore del gruppo di difesa israeliano Yanshoof, che cerca di fermare le vendite di armi israeliane a chi viola i diritti umani. ‘Non siamo interessati a diventare complici’.

(AP)





martedì 24 ottobre 2023

ANGELI UOMINI e DEMONI

 







In riferimento 


alla predica 


della Domenica





Di cosa, i diavoli di questo èvo sono capaci, solo il Dio che da sempre combatte le schiere del maligno e ne presiede giusto o ingiusto ‘fine’ ed ‘intento’ attraverso ogni Suo Elemento, da cui ‘santi dèmoni’ del Suo e Nostro Tempo, ne preannunziano il miracolo o triste accadimento nella materia naufragato!

 

Cosa, in veritate et per lo vero, gli Elementi del Sacro siano davvero, tra poco li esporremo all’oblio come preghiere al vento per ogni goccia immagine del Divino, dall’alta crosta del Tetto, sino allo più umile convento.

 

Ed il piacere, oppure, al roverso, la paura  d’udirne il lento o mutato fraseggio, qual timore del cambiamento per ogni Stagione  transitata e quantunque pregata, solo Loro, in veritate e per lo vero, possono descriverne il lento oblio dello Spirito immutato disceso e divenuto Sacro Elemento!

 

Accompagnare frate meco lo piede nel lento cammino della sofferta ulcerata Rima, oppure e allo contrario, allo strano tremore che una sola, una sola goccia siede alla destra o alla sinistra del trono di Dio come un diamante maledetto e da ognun Nessun escluso: maledetto!…




Annunziare una strana Stagione senza il Tempo del proprio Dio, che questo sia Eretico pagano laico o artodosso, o quantunque figlio d’un profeta nominato Maometto, il Diavolo riconosciamo nella graduale sua discesa e che non c’accompagni nell’abisso della guerra!

 

E così s’annunzia l’Autunno presagire un più rigido Inverno come sempre fu e sarà ancora?

 

Ma hora, in quest’umile hora, senza il tempo del Dio che l’ha creata materia, seppur il loro Dialogo mutato, percepiamo et udiamo la lenta discesa o ‘caduta’ nell’inferno Abisso di questa Terra, non più annunziare lieta novella, nell’apparente ‘caso’ della parola nata donare il Sacro e lo stupore che dalla muta goccia che l’accompagna et adorna come e più la più splendida miniatura, in neve ghiaccio et gioia, seppur il freddo assieme a frate vento ci ricorda un’antica avventura pregata ancora…




Fondare sano e più duraturo Intelletto per il Dio che l’ha comandata dal Regno Suo senza il Tempo per  goderne la bellezza che avanza seminare il principio della vita.

 

Così l’udire la prosa d’ogni Elemento a noi pare vero diletto, se poi son nominati demoni del cielo poco si è compreso dell’intero progetto circa lo vero e più sano Architetto. Quantunque nel tempo narrato per ogni stagione ove questa si posa ancora, noi abbiamo compreso il lento mutare della vita e simmetricamente alla stessa, ogni dèmone della terra il genio di dio che li sprona nell’apparente caso divenuto comandamento, avendo facoltà di mutarne il principio dall’uomo numerato (nell’ordine dallo stesso inumano intendimento presieduto, o meglio che dico? posseduto per conto di Mammona et hora divenuto una bestia da fiera!) come prodigiosa e più lecita scienza in nome della presunta Conoscenza, hora et in quest’hora, divenuta inutile seppur dotta saccenza!

 

Ciò, in veritate e per lo vero, in quest’hora abbiamo compreso!




Udire l’inverno della prima neve che bussa alla porta ad annunziare la sua Rima nel miracolo del Dio fuori dal loro piccolo Universo, per la Prosa della stagione che apparentemente muore per poi risorgere ancora.

 

Solo la misera scienza dell’uomo perderà il nesso della vita che lenta affoga nell’inferno dell’odio per ogni guerra!  

 

Udire ogni goccia che narra la Sua avventura una preghiera che rinnova la Sua Eterna venuta.

 

Udire, però, una sola, una sola goccia mischiarsi con le altre come improprio Elemento e confondere l’Intelletto di Dio, per cadere non più nel Suo Tempo e destino, così come la Vita dell’intero Creato, e lo Spirito che scende su questa martoriata Terra; ci pare di distinguerne la parola di Lucifero preannunziare lo triste suo impero. Ci pare la bestemmia di questo nuovo èvo che tutto confonde e muta in guerra per ogni Elemento!

 

Ci pare d’udire l’inganno di questo niente et nulla creato…




La predicazione di Francesco d’Assisi alla luce dei suoi scritti e delle fonti biografiche medievali, paragonandola all’ars praedicandi dell’epoca pone l’accento sull’evoluzione, sia dei contenuti del suo annuncio, sia della forma di trasmettere il messaggio cristiano, enucleando anche alcune indicazioni che l’Assisiate ha formulato a tale proposito per i suoi frati.

 

Uno dei momenti chiave nella trasformazione della predicazione esercitata da Francesco viene individuato nell’assunzione degli ordini sacri, ossia nell’essere diventato diacono, e nella graduale acquisizione di una basilare erudizione teologica, avvenuta anche attraverso l’ascolto dei testi liturgici.

 

Secondo gli storici del Medioevo, in quest’epoca si possono individuare tre periodi nei quali la predicazione si differenzia in maniera notevole: nell’alto Medioevo, fino all’anno Mille, a predicare sono soprattutto i vescovi che si rivolgono principalmente al clero e ai monaci; nei secoli XI e XII, ossia dalla riforma gregoriana in poi, nella predicazione sono sempre più impegnati i sacerdoti, e con il moltiplicarsi delle scuole cattedrali e con la nascita delle università i discorsi al clero e ai religiosi diventano sempre più dotti e molto più spesso sono rivolti al popolo; finalmente nel terzo periodo, il cui inizio coincide con i tempi di Francesco d’Assisi, si diffonde una vera e propria predicazione popolare e si afferma anche un nuovo tipo di sermone, sermo modernus, nato già verso la metà del secolo XII.




Al contempo nascono le artes praedicandi, ossia manuali, talvolta molto sintetici, talvolta piuttosto ampi, che spiegano come si costruisce il sermo modernus.

 

Uno dei primi manuali del genere fu scritto dal teologo parigino Alano di Lilla (1125-1202), ma molto presto ne nacquero altri, composti anche dai francescani, come Giovanni de La Rochelle, Gilberto di Tournai e Giovanni del Galles (una Ars concionandi viene attribuita perfino a san Bonaventura). Non voglio dire che Francesco predicava seguendo il modello del sermo modernus, tuttavia, per capire il racconto dei biografi e degli agiografi dell’Assisiate sulla sua predicazione dobbiamo conoscere questo genere dell’arte oratoria: le loro descrizioni utilizzano infatti le categorie retoriche tipiche del sermo modernus.




A differenza dell’omelia, che intendeva l’esposizione di un’intera pericope biblica così come lo facevano i padri della Chiesa antica, il nuovo sermone prende come punto di partenza soltanto un versetto, cosiddetto thema, questo però può essere preceduto anche da un prothema, una specie di prologo, nel quale il predicatore riflette sulle condizioni dell’ascolto, sulla natura del verbo di Dio o sulla rivelazione divina, prepara gli ascoltatori ad accogliere la parola rivelata e chiede la luce dello Spirito santo per loro e per sé stesso, terminando con una preghiera.

 

Finito il prothema, il predicatore propone una divisione del thema, enucleando nel versetto biblico gli elementi che corrispondono alle principali parti del sermone. Di solito la principale suddivisione prevede da due a quattro sezioni che si ramificano ulteriormente ad arte, secondo numeri uguali e mantenendo una specie di simmetria.




Secondo Tommaso da Spalato, che ricorda la predica di Francesco tenutasi a Bologna il 15 agosto 1222, l’Assisiate ‘non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un concionatore’. Con queste parole il cronista dalmata sembra voler dire che Francesco si esprimeva come gli oratori borghesi dell’epoca anziché come un chierico. Si potrebbe pensare quasi a un comizio politico di oggi. Ce lo conferma anche l’incipit (o l’esordio) di questa predica che non è affatto un versetto biblico: essa attacca sulle parole: 

 

Gli angeli, gli uomini, i demoni 

 

Parlò così bene e chiaramente di queste tre specie di spiriti razionali, che molte persone dotte, ivi presenti, rimasero non poco ammirate per quel discorso di un uomo illetterato. Eppure egli non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un conciliatore. In realtà, tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace. Portava un abito sudicio; la persona era spregevole, la faccia senza bellezza. Eppure Dio conferì alle sue parole tale efficacia che molte famiglie signorili, tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato fino allo spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. Grandissime erano poi la riverenza e la devozione della folla, al punto che uomini e donne si gettavano alla rinfusa su di lui, con bramosia di toccare almeno le frange del suo vestito o di impadronirsi di un brandello dei suoi panni.




A distanza di tanti anni, dunque, Tommaso da Spalato ancora ricordava la miserabile figura di Francesco, il suo volto nient’affatto gradevole e la sozzura delle sue vesti.

 

Con tutta evidenza, non era dunque il suo aspetto fisico a colpire gli ascoltatori, convenuti numerosissimi, neppure si può dire che Francesco curasse la propria immagine: piuttosto — questo sì! — si sforzava di occuparsi della propria anima, e Dio faceva il resto, perché gli uomini di Dio — quando sono veramente tali — fanno leva non sulle apparenze, ma sulla potenza dello Spirito.

 

Quanto attuale risulta allora, anche in questo, la sua figura, quando da troppe parti e con troppa virulenza ci vien detto che ciò che conta è apparire, non importa come, e che il non apparire equivale a non esistere!




Preziosissima si rivela poi la notazione riguardo allo stile della predicazione di Francesco, che lasciava scorgere in lui un ‘oratore politico’ (contionator), più che un predicatore vero e proprio. La contio era un’assemblea di popolo, il contionator quello che oggi si direbbe un comiziante, il quale — secondo quanto insegnava un maestro del tempo, e cioè Boncompagno da Signa nella sua Rethorica novissima — doveva fortemente impressionare l’uditorio, non tanto e non solo con le parole, quanto anche con le proprie espressioni e i propri gesti.

 

Secondo Erik Auerbach, tutto quello che Francesco fece, dal momento della conversione fino al giorno della sua morte, ‘fu una rappresentazione; e le sue rappresentazioni erano di tale forza che egli trascinava con sé tutti coloro che lo vedevano o ne avevano soltanto notizia’.




Attraverso queste sue rappresentazioni egli riconobbe i suoi errori, come quando ad Assisi, dopo aver predicato sulla piazza antistante la chiesa di San Rufino, ammise che durante una quaresima (con tutta evidenza, nella quaresima detta di san Martino, che precedeva il Natale del Signore) aveva mangiato carne e brodo di carne. Ancora ricorrendo a tale espediente corresse i suoi frati, come quando a Greccio, nel giorno di Natale di un anno imprecisato, vedendo che la mensa comunitaria era stata riccamente imbandita, uscì di nascosto e si ripresentò alla porta travestito da mendicante, suscitando commozione e pentimento tra di essi:

 

‘Quale idea geniale da palcoscenico — scrisse ancora Auerbach — di prendere il cappello e il bastone di un povero e di mendicare presso dei mendicanti! Ci si può immaginare lo sbalordimento e la vergogna dei frati quando egli col piatto si siede sulla cenere dicendo: Adesso sto seduto come un vero frate minorita…’.




Francesco non seguiva dunque le regole tipiche del genere predicatorio, ma piuttosto manteneva una stretta aderenza al vissuto quotidiano. Non solo: la sua non era una predicazione esclusivamente verbale, bensì faceva ricorso a tutti gli strumenti che aveva a disposizione.

 

Tra gli agiografi del Santo, è Tommaso da Celano a rivelare una spiccata attenzione alla corporeità di Francesco, alla sua capacità di predicare anche con il corpo, fino a fare di esso una lingua, come scrisse con espressione efficace, accentuandone gli aspetti drammatici.

 

In fondo, è proprio questa fisicità, questa concretezza di uomo in carne ed ossa ad emergere dal racconto della predica che Francesco tenne davanti a Onorio III e ai cardinali. Il Celanese narra infatti che nel corso di quella  per molti aspetti delicatissima predicazione, Francesco, non riuscendo più a contenersi per la gioia, mentre parlava muoveva i piedi, quasi stesse saltellando.




L’agiografo, in questa circostanza, riferisce onestamente i fatti così come gli erano stati narrati: valga a testimoniarlo la descrizione del timore che pervase il cardinale Ugo di Ostia di fronte a un simile modo di fare. Tommaso precisa pure che il Santo si comportò in quella maniera ‘non come chi scherzi’, ma perché ardeva del fuoco dell’amor divino, motivo per cui una tanto strana predicazione non provocò il riso degli ascoltatori, quanto piuttosto un pianto di dolore: una precisazione che mostra tutta la difficoltà incontrata dall’agiografo dinanzi all’insolito comportamento di Francesco e perciò ne rafforza l’autenticità.

 

Nondimeno, quel che più colpisce nel racconto di quanto accadde a Bologna il 15 agosto del 1222, è il fatto che la persona di Francesco, seppur spregevole e senza bellezza, per la forza che Dio impresse alle sue parole, fece sì che molte famiglie signorili, in guerra tra loro, fossero piegate a consigli di pace.




Troverebbe eguale ascolto, oggi, la sua parola, quando a prevalere sembra essere piuttosto una voglia sfacciata di mostrare i muscoli, una tendenza a escludere piuttosto che a includere, un bisogno quasi insopprimibile di belligeranza? 

 

DEMONI 

 

Per entrare nel mondo dei demòni, e per l’esatta comprensione dei termini demònio e diavolo, occorre prendere le distanze da quello che nella cultura occidentale viene raffigurato come un essere orribile e malefico, la cui vivace rappresentazione si ha nell’inferno di Dante o in certi affreschi medioevali del Giudizio universale, così come è necessario distinguere nettamente la terminologia e separare il diavolo (o il satana) dal demònio.




Nel linguaggio popolare si può parlare indifferentemente di diavolo e di demònio, confondendo e unendo due realtà che nella Bibbia sono sempre mantenute diverse e distinte. Nella lingua greca inoltre si distingue tra dèmone, termine che ricorre nei testi classici con il significato di divino, per indicare un essere intermedio fra dio e l’uomo, e demònio che è la forza che promana dal dèmone, ma meno potente e più limitata nel tempo.

 

Con il termine dèmone in origine si indica ogni essere divino e nei testi più antichi non esiste alcuna differenza tra dèmone e dio. Omero non fa ancora distinzione tra dèi e dèmoni. Secondo Plutarco ‘fu Esiodo il primo a distinguere in modo chiaro e preciso quattro generi di esseri razionali: dèi, dèmoni, eroi, e infine uomini. Tra questi sembra che molti uomini virtuosi dell’età d’oro si mutassero in dèmoni, così come alcuni semidèi discesero al rango di eroi’.




Condividendo la possibilità di un passaggio da una categoria all’altra, Plutarco scrive che ‘lside e Osiride erano all’inizio solo dei dèmoni buoni, e furono poi trasformati in dèi per la loro virtù.

 

Nella distinzione tra dio e dèmone, dio veniva usato per gli esseri divini superiori, dèmone era riservato per entità minori che non erano considerate immortali. Infatti a differenza degli dèi si riteneva che i dèmoni invecchiassero e poi, dopo molti secoli, morissero. Esiodo arrivò a calcolare la durata della loro vita, che stabilì in 9720 anni. Secondo la concezione dell’epoca, mentre agli dèi era stato assegnato lo spazio dal cielo alla luna, dove l’aria era più pura (l’etere), ai dèmoni erano riservati gli spazi dalla luna alla terra, dove l’aria, a causa dei vapori e delle foschie, era considerata impura. La bontà o malvagità del dèmone dipendeva dalla sua provenienza: più bassa era la posizione del dèmone nella sfera celeste e più maligno e dannoso esso era e veniva degradato da dèmone a demònio.




Nel mondo greco il ‘buon dèmone’ era l’equivalente dell’angelo custode, mentre uno spirito cattivo era definito un ‘cattivo dèmone’. I dèmoni buoni e utili all’uomo vengono da Esiodo chiamati ‘santi dèmoni’.  La funzione del dèmone greco nella Bibbia è svolta dall’angelo, termine col quale si indica un messaggero di Dio.

 

La differenza tra il dèmone del mondo mitologico e l’angelo del mondo ebraico sta nel fatto che i dèmoni sono autonomi, mentre gli angeli dipendono da Dio e in nessun caso nella Bibbia un angelo è diventato un dèmone o tantomeno un demònio.

(A. Maggi)







giovedì 19 ottobre 2023

LETTERE DALLA MONTAGNA, ovvero, TUTTE LE COSE SONO STATE CREATE BUONE DA DIO E.... (per mano degli uomini....)

 







In riferimento 


al Niente & Nulla 


di questa nostra civiltà





Questa influenza durevole della Profession de foi spiega come essa abbia avuto effetti immediati sulla sorte dell’intera opera, di cui un breve paragrafo ritraccerà ora la storia.

 

‘Venti anni di meditazione e tre di lavoro’, ecco il tempo che l’autore dichiara di aver dedicato all’Emilio. Nel 1759, dopo aver lungamente riflettuto, non nelle biblioteche, ma sotto le ombre della foresta di Montmorency, egli è in piena febbre creativa. È in casa del maresciallo di Luxembourg, in una torre solitaria del parco, che egli scrive l’ultima parte, la più delicata, quella che gli ‘sta più a cuore di ogni altra’.

 

La stampa dell’opera fu oggetto di cure non meno premurose di quelle dedicate dal Rousseau alla redazione. In un primo momento egli aveva concesso carta bianca ai due suoi protettori più sinceri; la marescialla di Luxembourg gli aveva trovato un editore, Malesherbes gli facilitava le pratiche ufficiali. Ma la lentezza della composizione preoccupa l’autore, che attraversava, nel novembre e dicembre 1761, un doloroso periodo di allucinazioni.

 

Credeva che i Gesuiti, suoi nemici, sebbene già minacciati di quell’espulsione che ben presto li avrebbe colpiti, potessero sequestrare la sua opera per falsificarla dopo la sua morte. Nonostante gli sforzi dei familiari per tranquillizzarlo, rifà la minuta, almeno per la Profession de foi, e la invia per posta al suo amico Moultou, onde prevenire qualsiasi eventualità. Infine, dopo numerosi incidenti, la stampa ha termine a metà di maggio 1762.




Il 23 Rousseau fa spedire l’annunzio a un centinaio di amici. Il 24 il libro è messo in vendita al Palais-Royal, al prezzo di 16 lire, un mese dopo l’apparizione del Contrat social, passato quasi inosservato.

 

Immediatamente il successo e l’emozione furono considerevoli. Il 26 Bachaumont nota che l’Emilio ‘faceva gran rumore’; cinque giorni dopo, che esso ‘era occasione di crescente scandalo… La spada e l’incenso si alleano contro l’autore; e i suoi amici gli hanno dimostrato che c’è motivo di temere per lui’. In effetti, il 3 giugno il libro viene sequestrato.

 

Il 4, l’editore Duchesne scrive a Rousseau:

 

Vi informo con rincrescimento che la polizia ha interrotto la nostra attività e che non possiamo vendere nulla.

 

I pochi esemplari che si possono vendere clandestinamente raggiungono le 42 copie.

 

Le reazioni dell’opinione pubblica sono così accese che la giustizia sarà costretta ad agire con severità. Con procedimento d’urgenza fu decisa l’azione penale e venne formulato il verdetto. Due giorni dopo le ferie della Pentecoste, la mattina del 19 giugno, la prima sezione del Parlamento decretava l’arresto dell’autore e condannava l’opera alle fiamme. La condanna fu decisa con undici voti, il minimo necessario per la legalità dell’arresto.




Votarono contro tutti i vecchi magistrati, attaccati alla tradizione. Si astennero i liberali, tra gli altri Hénault e Malesherbes. L’11 il volume veniva bruciato dal carnefice sui gradini del grande scalone. Si volle arrestare Rousseau ed egli sarebbe volentieri rimasto per difendere la propria innocenza, se non gli fosse stato detto che la fuga era necessaria per la sicurezza dei suoi ospiti e per la sua personale salvezza.

 

Così il 9 giugno lascia Montmorency per raggiungere Pontarlier; il 14 si stabilisce a Yverdon, sul territorio di Berna, donde, poco dopo, la condanna del libro a Ginevra lo costringe a cercare asilo nel villaggio di Motiers-Travers, nella regione del Giura.

 

Il 18 giugno il sinodo di Ginevra e il 19 il Consiglio minore pronunciano il loro verdetto. Lo stesso giorno, insieme con il Contrat social, l’Emilio è bruciato dal carnefice dinanzi alla porta del Municipio. Analoga misura viene decisa in Olanda. Più lenta, la Sorbona rinvia dal 1º luglio al 2 agosto l’esame dell’opera, censurata infine nel novembre.




Un breve del papa Clemente XIII ai dottori della Sorbona (26 ottobre 1763) approva la condanna.

 

Dal 9 settembre 1762 il libro era stato messo all’Indice e vietato ai fedeli da una pastorale dell’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont L’assemblea generale del clero di Francia, riunita nel 1763, si pronunciò nello stesso senso.




Gli avversari personali si accodarono alle autorità. Ci fu una valanga di libelli, come l’Anti-Emile di Formey, come gli scritti dell’abate André, di don Cajot, di padre Griffet: un vero accesso di rabbia contro questi paradossi ‘che fanno stridere i denti’.

 

Gli spiriti religiosi si irritarono: ‘È davvero il libro più infernale che sia stato mai fatto’, scrive il Delfino, figlio di Luigi XV, al vescovo di Verdun. In una lettera a Damilaville (4 giugno 1762), Voltaire schernisce: ‘Io non ho ancora questa Educazione dell’uomo più maleducato che esista al mondo’.

 

Dopo che ebbe ricevuto, il 14 giugno, questo ‘guazzabuglio’, pur riconoscendo, come abbiamo già visto, la bellezza letteraria della Profession de foi, egli deplora ‘l’incoerenza’ di un autore che ingiuria contemporaneamente i filosofi e Gesù Cristo. Perciò non prova alcuna indignazione nel saperlo bruciato a Ginevra ‘nella persona del suo insipido Emilio’.

 

Madame Deffand rincara la dose: ‘Jean-Jacques mi è antipatico’ gli scrive il 25 giugno 1764 ‘riprecipiterebbe tutto nel caos; non ho mai visto nulla di più contrario al buon senso del suo Emilio’.

 

Grimm si rammarica che Rousseau abbia fatto un’opera didattica, piena di regole, di principi, di massime: secondo lui, avrebbe dovuto darci la storia o il romanzo della sua educazione e utilizzare il suo progetto di Traité d’éducation, in cui era riservato un posto a tutte le professioni. L’anno seguente riprendeva, non senza perfidia, le sue critiche e, poco generosamente, faceva pronunciare da Diderot una requisitoria, che quest’ultimo avrebbe ripreso più tardi a nome proprio.




 L’amico di un tempo definiva Rousseau ‘uomo incline agli eccessi… oscillante tra l’ateismo e il battesimo delle campane’ e lamentava che quel ‘pasticcio’ della Profession de foi avesse fatto girare tante teste. In verità, come sappiamo, fu proprio questo magnifico capolavoro che servì da pretesto a tante persecuzioni ufficiali e fece nascere contro Rousseau tante inimicizie personali. Ma un accanimento così unanime deve spiegarsi con una serie di ragioni diverse.

 

Innanzi tutto il libro era apparso proprio nel momento in cui il Parlamento si preparava ad espellere i Gesuiti. Per placare in anticipo l’opinione pubblica, esso non esitò a proscrivere un autore la cui condanna sembrava una testimonianza d’imparzialità.

 

Nocque anche a Rousseau proprio ciò che costituiva per lui il più alto titolo d’onore: egli aveva osato firmare la sua opera, mentre la maggior parte degli scrittori, Voltaire per primo, pubblicavano le loro anonime o ricorrendo a un prestanome. Donde questa singolare accusa della requisitoria: ‘L’autore di questo libro, non avendo avuto timore di far conoscere il suo nome, merita di essere immediatamente perseguito’.

 

D’altro canto, se l’Emilio fu più largamente attaccato del Discours sur l’inégalité, in cui Rousseau svolgeva le stesse idee, è perché il tono provocante dello scrittore era tale da scontentare molte persone. I filosofi, anche se egli non li avesse da gran tempo abbandonati di propria iniziativa, lo avrebbero messo al bando per aver detto: ‘Il disordine morale, che secondo i filosofi è una prova contro la Provvidenza, ai miei occhi è invece una dimostrazione della sua esistenza’.




I dotti non gli perdonavano di aver dichiarato ‘che ci sono più errori nell’Accademia delle Scienze che in tutto un popolo di Uroni’ (libro quarto). Gli accademici erano irritati contro di lui perché, riportando l’iscrizione delle Termopili, vi aveva aggiunto la seguente riflessione: ‘Si vede bene che non appartiene all’Accademia delle Iscrizioni l’autore di questa’ (libro terzo).

 

Infine i privilegiati di un’epoca che faceva ancora assegnamento sulla stabilità della fortuna e delle condizioni potevano accettare un libro in cui tutti i pregiudizi sociali erano apertamente attaccati?

 

Rousseau sembrò sulle prime stupito di queste molteplici manifestazioni di animosità, come se non le avesse provocate e previste. Ma ben presto, di fronte all’inanità delle sue lagnanze e alla impossibilità legale di difendersi, cominciò a reagire coraggiosamente.

 

Non abbiamo qui spazio sufficiente per riferire nei particolari le polemiche parigine e ginevrine che fecero seguito per parecchi anni alla pubblicazione dell’Emilio e di cui le Lettres de la montagne (1764) segnano il momento più intenso. Basterà ricordare con quale appassionata dignità il vinto rispose alla pastorale dell’arcivescovo di Parigi nella bellissima Lettre à Christophe de Beaumont. Discutendo punto per punto le accuse del prelato, giustifica, con logica e con passione, la sua condotta, la sua dottrina e il suo libro. Questa opera vale per la sua indignazione, per la sua sincera eloquenza. Soprattutto essa presenta per noi l’interesse di mostrare la fede di Rousseau in un’opera che gli diverrà sempre più cara, man mano che a causa di essa conoscerà maggiormente l’orgogliosa amarezza della vita errabonda, dell’abbandono, della follia.




 INTRODUZIONE 

 

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo. Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo; tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sé come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino.

 

Pure, se così non fosse, tutto sarebbe ancora peggiore: la nostra specie non ammette di essere formata a metà. La situazione è ormai tale che un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita in mezzo ai suoi simili, sarebbe il più deforme di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali in cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza nulla sostituirle. In un uomo siffatto essa avrebbe vita stentata, quasi arboscello cresciuto per caso in mezzo a una strada e che i passanti fanno ben presto perire urtandolo da ogni parte, piegandolo in ogni senso.

 

A te mi rivolgo, madre amorosa e previdente, a te che hai saputo discostarti dalla strada battuta da tutti e proteggere l’arboscello nascente dall’urto delle opinioni umane! Coltiva ed abbevera la giovane pianta prima che muoia: i suoi frutti saranno un giorno la tua gioia. Erigi al più presto un recinto intorno all’animo del tuo fanciullo; altri potrà indicarne il tracciato, ma tu sola devi costruirvi la barriera.




Le piante si coltivano, gli uomini si educano. Se l’uomo venisse al mondo grande e robusto, statura e forza gli sarebbero inutili, finché non avesse imparato a servirsene; gli riuscirebbero anzi dannose, impedendo agli altri di prendersi cura di lui; abbandonato a se stesso, morirebbe prima ancora di aver conosciuto i propri bisogni. È consuetudine commiserare la condizione dell’infanzia: non si comprende che la specie umana sarebbe perita, se l’uomo non avesse cominciato a vivere come fanciullo.

 

Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forza; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che alla nascita non possediamo e che ci sarà necessario da adulti ce lo fornisce l’educazione.

 

L’educazione ci viene impartita o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini c’insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l’educazione delle cose.

 

Ognuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo in cui i loro diversi insegnamenti si contraddicono riceve una cattiva educazione e non sarà mai in armonia con se stesso; ma se tali insegnamenti vertono tutti sugli stessi punti e tendono agli stessi fini, allora il discepolo raggiunge la sua meta e vive in modo coerente. Egli solamente è educato bene.




Ma delle tre diverse forme di educazione quella della natura è del tutto indipendente da noi e quella delle cose non dipende da noi che in parte. Solo l’educazione degli uomini è davvero in nostro potere; e anche questo potere è piuttosto teorico, poiché chi mai può sperare di controllare interamente discorsi ed azioni di tutti coloro che vivono intorno a un fanciullo?

 

Nella misura dunque in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poiché l’armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno. Tutto quel che si può fare, usando ogni possibile premura, è avvicinarsi più o meno alla meta, ma per raggiungerla ci vuole fortuna.

 

E qual è questa meta? È la stessa della natura, come abbiamo dimostrato poc’anzi. Poiché il concorso delle tre forme di educazione è necessario al loro perfetto compimento, occorre armonizzare con quella che non dipende da noi anche le altre due. Ma forse la parola natura ha un senso troppo vago: cerchiamo di determinarlo.

 

La natura, sentiamo ripetere, non è che l’abitudine.

 

Che significa ciò?




Non vi sono forse abitudini che si contraggono per costrizione e che, tuttavia, non giungono mai a soffocare la natura? Si pensi, ad esempio, all’abitudine contratta da certe piante di cui si ostacola la crescita in senso verticale. Lasciata libera, la pianta conserva l’inclinazione che fu costretta ad assumere; ma non per questo la linfa ha mutato la sua direzione iniziale e, se la pianta vegeta ancora, il suo prolungamento torna verticale.

 

Lo stesso accade per le inclinazioni degli uomini.

 

Finché restiamo nello stesso stato, possiamo conservare quelle provocate dall’abitudine e che sono per noi le meno naturali; ma non appena la situazione cambia, l’abitudine viene meno e la natura riprende il sopravvento. L’educazione certamente non è altro che un’abitudine. Ma non vi sono forse persone che dimenticano e perdono la propria educazione, mentre altre la conservano?

 

Donde ha origine questa differenza?

 

Se si deve limitare la definizione di natura alle abitudini conformi alla natura stessa, tanto vale fare a meno di questa vuota perifrasi.

 

Nasciamo dotati di sensibilità e, fin dalla nascita, riceviamo impressioni diverse dagli oggetti che ci circondano. Non appena acquistiamo, per così dire, coscienza delle nostre sensazioni, abbiamo tendenza a ricercare o a fuggire gli oggetti che le producono: dapprima, per il solo effetto gradevole o sgradevole delle sensazioni stesse; poi, a seconda della conformità o della estraneità che rileviamo tra noi e quegli oggetti; e infine guidati dal giudizio che ne diamo in base all’idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione.




Queste disposizioni si estendono e si consolidano via via che si sviluppano in noi sensibilità ed intelletto; ma, tenute a freno dalle abitudini, vengono inoltre variamente alterate dalle nostre opinioni. Prima che l’alterazione si produca, tali disposizioni costituiscono in noi quella che io chiamo natura.

 

Su queste disposizioni primitive dovrebbe dunque fondarsi ogni azione educativa; e ciò sarebbe possibile, se le nostre tre forme di educazione fossero soltanto diverse: ma che fare quando sono addirittura opposte, quando, anziché educare un uomo per se stesso, si vuole educarlo per gli altri? In tal caso l’armonia diventa impossibile. Di fronte alla necessità di contrastare o la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidere se formare un uomo o un cittadino: formare l’uno e l’altro insieme non si può.

 

Ogni società particolare, non troppo estesa e intimamente unita, si distacca dalla grande società umana. Il patriota è sempre duro verso gli stranieri: sono soltanto uomini e non hanno alcun valore ai suoi occhi. Questo inconveniente è inevitabile, ma non grave. L’essenziale è comportarsi bene verso coloro con i quali viviamo. Fuori della sua città lo Spartano era ambizioso, avaro, iniquo, ma dentro le mura di Sparta regnavano il disinteresse, l’equità, la concordia. Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercarsi remoti doveri sulle pagine dei libri e non si degnano di compierne intorno a loro. Vi sono filosofi che amano i Tartari, per essere dispensati dall’amare i propri vicini.




L’uomo naturale è un’entità del tutto a sé stante, è l’unità numerica, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o col suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria condizionata dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale.

 

Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell’unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito.

 

Un cittadino romano non era né Caio né Lucio: era un Romano, e giungeva ad amare la patria fino al totale oblio di se stesso. Regolo pretendeva di essere Cartaginese, in quanto divenuto proprietà dei suoi nemici, e coerentemente, ritenendosi straniero, rifiutava di sedersi nel Senato di Roma: fu necessario che un Cartaginese glielo ordinasse. Ma poi si indignava perché i concittadini volevano salvargli la vita. Ed ebbe partita vinta e se ne tornò trionfante a morire tra le torture. Esempi siffatti, se non m’inganno, hanno poca affinità con gli uomini che oggi conosciamo.

 

Lo spartano Pedarete si presenta per essere ammesso nel Consiglio dei trecento, ma è respinto: se ne torna a casa tutto contento, perché a Sparta si sono trovati trecento uomini più valenti di lui. Io ritengo sincero questo suo atteggiamento e c’è motivo di credere che realmente lo fosse: ecco il cittadino.




Una donna spartana aveva cinque figli soldati e attendeva notizie sull’esito della battaglia. Arriva un ilota ed a lei che, tremante, lo interroga, annunzia: ‘I vostri cinque figli sono stati uccisi’. ‘Vile schiavo, è forse questo che ti ho domandato?’ ‘Abbiamo riportato vittoria!’ E la madre corre al tempio e rende grazie agli dei. Ecco la cittadina.

 

Colui che nell’ordine civile vuol conservare il primo posto ai sentimenti naturali non sa quello che vuole. Sempre in contraddizione con se stesso, sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mai né uomo né cittadino, non sarà buono né per sé né per gli altri; sarà un uomo dei nostri tempi, un Francese, un Inglese, un borghese; non sarà niente.

 

Per essere qualcosa, per essere se stessi e sempre coerenti a se stessi, bisogna agire come si parla; bisogna essere decisi sul partito da prendere, prenderlo a viso aperto e non staccarsene mai. Aspetto che mi si faccia vedere un così prodigioso individuo, per sapere se sia uomo o cittadino, oppure come faccia ad essere l’uno e l’altro ad un tempo.

 

Da questi due obiettivi necessariamente opposti derivano due forme contrarie di istituzioni educative: l’una pubblica e collettiva, l’altra privata e domestica.




Chi voglia avere un’idea dell’educazione pubblica, legga la Repubblica di Platone. Non è affatto un’opera politica, come ritiene chi giudica i libri solo dal titolo: è il più bel trattato di educazione che sia mai stato scritto.

 

Quando si vuol citare ad esempio un paese chimerico, si tirano in ballo le istituzioni educative di Platone: se Licurgo si fosse limitato a mettere le sue per iscritto, le troverei più chimeriche ancora. Platone ha soltanto purificato il cuore dell’uomo, Licurgo lo ha snaturato.

 

L’educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perché dove non è più patria non possono essere più cittadini. Queste due parole, “patria” e “cittadino”, debbono essere cancellate dalle lingue moderne. Ed io ne so bene la ragione, ma non voglio dirla, perché non ha nulla a che fare col mio tema.

 

Non considero come esempi di educazione pubblica quei ridicoli istituti chiamati collegi. Né faccio maggior conto dell’educazione derivante dalla società, perché, mirando a due fini contrari, li fallisce entrambi: essa è capace soltanto di formare uomini ipocriti, che fanno sempre mostra di altruismo, mentre si preoccupano esclusivamente di se stessi. Ma poiché queste ipocrisie sono comuni a tutti, non ingannano nessuno. È tutta fatica sprecata.

 

Da queste contraddizioni nasce quella che sentiamo incessantemente in noi stessi. Trascinati dalla natura e dagli uomini in direzioni contrarie, costretti a dividerci tra questi impulsi diversi, finiamo per seguire una forza risultante, che non ci conduce né all’una meta né all’altra. Così, combattuti e ondeggianti per tutta la vita, ci ritroviamo al termine estremo senza aver raggiunto l’armonia interiore, senza essere stati utili né a noi stessi né agli altri.




Resta infine l’educazione domestica o quella della natura, ma che cosa sarà mai per gli altri un uomo educato unicamente per sé?

 

Se fosse possibile fondere in uno solo il duplice scopo che ci si propone, forse, rimuovendo le contraddizioni dell’uomo, si eliminerebbe un grosso ostacolo alla sua felicità. Ma per poter giudicare di lui, bisognerebbe vederlo interamente formato; bisognerebbe averne osservato le inclinazioni, averne seguito i progressi grado per grado; bisognerebbe, in una parola, conoscere l’uomo naturale. Io credo che, leggendo il presente lavoro, si farà qualche passo innanzi in tali ricerche.

 

Che cosa dobbiamo fare per formare quest’uomo raro?

 

Molto, indubbiamente: vegliare perché nulla sia fatto.

 

Quando occorre navigare contro vento, si bordeggia; ma se il mare è violento e si vuole restare fermi, bisogna gettare l’ancora. Sta’ attento, o giovane pilota, a non lasciar filare la gomena, bada che l’ancora non slitti sul fondo e che la tua imbarcazione non vada alla deriva prima che tu te ne accorga.

 

Nell’ordine sociale, in cui ogni posizione è distinta dalle altre, ciascuno deve essere educato in rapporto a quella che occupa. Se un individuo abbandona la posizione sociale per cui è stato preparato, non è più capace di far nulla. L’educazione è utile solo a patto che la scelta della professione operata dai genitori sia sorretta dalla fortuna; diversamente nuoce all’allievo, non foss’altro che per i pregiudizi che gli ha inculcati.




In Egitto, dove il figlio era obbligato ad abbracciare la condizione del padre, l’educazione aveva almeno uno scopo sicuro; ma nella nostra società, in cui solo i ceti sociali sono durevoli, mentre i singoli uomini passano continuamente dall’uno all’altro, nessuno può sapere, quando educa il figlio in conformità del proprio ceto, se non lo danneggi.

 

Nell’ordine naturale, poiché gli uomini sono tutti eguali, la loro vocazione comune è la condizione umana; e chiunque sia stato ben preparato a tale condizione, non può non assolvere egregiamente i compiti che ne derivano. Che il mio alunno sia destinato alle armi, alla Chiesa o alla toga, poco m’importa. Prima che i genitori scelgano per lui una professione, la natura lo chiama alla vita umana.

 

Ed io intendo insegnargli l’arte di vivere.

 

Uscendo dalle mie mani, lo ammetto, egli non sarà magistrato, né soldato, né sacerdote; sarà innanzi tutto uomo: a tutti i doveri propri di un uomo egli sarà in grado di far fronte al pari di qualsiasi altro e, per quanto la fortuna possa fargli mutar condizione, egli si sentirà sempre al suo posto. Occupavi te, Fortuna, atque cepi; omnesque aditus tuos interclusi ut ad me adspirare non posses.




Il vero oggetto del nostro studio è la condizione umana. Il meglio educato tra noi è, a parer mio, colui che meglio sa sopportare i beni e i mali di questa vita; ne consegue che la vera educazione non è fatta di precetti, ma di esercizi. Noi cominciamo ad istruirci nell’atto stesso in cui cominciamo a vivere; la nostra educazione ha inizio con la nascita e il nostro primo precettore è la nutrice. Si spiega così come la parola “educazione” avesse per gli antichi un significato che per noi non ha più: “allevamento”. Educit obstetrix, dice Varrone, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister.

 

Così tra queste tre attività dell’allevare, dell’educare e dell’istruire vi è tanta diversità quanta ne intercorre tra nutrice, precettore e maestro. Ma tali distinzioni vengono fraintese e il bambino, per essere ben diretto, deve affidarsi a una sola guida.




Occorre dunque dare ai nostri propositi un carattere più generale e considerare nel nostro allievo l’uomo astratto, l’uomo soggetto a tutte le vicissitudini della vita umana. Se gli uomini fossero perpetuamente legati al suolo su cui nacquero, se la stessa stagione durasse per l’intero anno, se ciascuno fosse così vincolato alla condizione avuta in sorte da non potersene mai distaccare, la pratica ormai affermatasi sarebbe relativamente buona; educato in funzione del suo stato e mai desideroso di mutarlo, il fanciullo non potrebbe, divenuto uomo, trovarsi esposto agli inconvenienti di uno stato diverso.

 

Ma se si considera la mutevolezza delle vicende umane, lo spirito irrequieto e volubile di questo secolo che tutto sconvolge ad ogni generazione, quale metodo potrebbe apparirci più insensato che educare un fanciullo come se fosse destinato a non uscir mai dalla sua camera e ad essere sempre circondato dai suoi?

 

Se l’infelice fa un passo sulla terra, se solo discende di un gradino, è perduto. Così non impara a sopportare il dolore, ma si esercita a sentirlo più intensamente.




Si pensa soltanto a conservare il proprio bambino: non è sufficiente; occorre insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare le percosse del destino, a sfidare l’opulenza e la miseria, a vivere, se necessario, tra i ghiacci dell’Islanda o tra le rocce infocate di Malta.

 

Usate pure ogni possibile precauzione perché non muoia: dovrà ben morire una volta; e quand’anche la sua morte non fosse effetto delle troppe attenzioni, queste sarebbero pur sempre inopportune. Non importa tanto impedirgli di morire, quanto farlo vivere.

 

E vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere. L’uomo che ha vissuto di più non è quegli che può annoverare il maggior numero d’anni, ma colui che più intensamente ha sentito la vita. V’è chi s’è fatto sotterrare a cento anni, ed era morto fin dalla nascita. Meglio sarebbe stato per lui scendere nella tomba ancor giovane, pur che avesse veramente vissuto fino a quel tempo.

 

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili, tutte le nostre consuetudini si risolvono nell’asservimento, nella costrizione. L’uomo civile nasce, vive e muore nella schiavitù: alla nascita lo imprigionano nelle fasce; alla morte lo inchiodano in una bara; finché conserva sembianze umane, è incatenato dalle nostre istituzioni.

 

Si dice che molte levatrici, manipolando la testa dei neonati, pretendano di darle forma migliore: e le si lascia fare! Le nostre teste sarebbero dunque malfatte così come le creò l’Autore del nostro essere: bisogna che siano riplasmate esternamente dalle levatrici, all’interno dai filosofi. I Caraibi sono di una metà più fortunati di noi. 

(J. J. Rousseau)