giovedì 19 ottobre 2023

LETTERE DALLA MONTAGNA, ovvero, TUTTE LE COSE SONO STATE CREATE BUONE DA DIO E.... (per mano degli uomini....)

 







In riferimento 


al Niente & Nulla 


di questa nostra civiltà





Questa influenza durevole della Profession de foi spiega come essa abbia avuto effetti immediati sulla sorte dell’intera opera, di cui un breve paragrafo ritraccerà ora la storia.

 

‘Venti anni di meditazione e tre di lavoro’, ecco il tempo che l’autore dichiara di aver dedicato all’Emilio. Nel 1759, dopo aver lungamente riflettuto, non nelle biblioteche, ma sotto le ombre della foresta di Montmorency, egli è in piena febbre creativa. È in casa del maresciallo di Luxembourg, in una torre solitaria del parco, che egli scrive l’ultima parte, la più delicata, quella che gli ‘sta più a cuore di ogni altra’.

 

La stampa dell’opera fu oggetto di cure non meno premurose di quelle dedicate dal Rousseau alla redazione. In un primo momento egli aveva concesso carta bianca ai due suoi protettori più sinceri; la marescialla di Luxembourg gli aveva trovato un editore, Malesherbes gli facilitava le pratiche ufficiali. Ma la lentezza della composizione preoccupa l’autore, che attraversava, nel novembre e dicembre 1761, un doloroso periodo di allucinazioni.

 

Credeva che i Gesuiti, suoi nemici, sebbene già minacciati di quell’espulsione che ben presto li avrebbe colpiti, potessero sequestrare la sua opera per falsificarla dopo la sua morte. Nonostante gli sforzi dei familiari per tranquillizzarlo, rifà la minuta, almeno per la Profession de foi, e la invia per posta al suo amico Moultou, onde prevenire qualsiasi eventualità. Infine, dopo numerosi incidenti, la stampa ha termine a metà di maggio 1762.




Il 23 Rousseau fa spedire l’annunzio a un centinaio di amici. Il 24 il libro è messo in vendita al Palais-Royal, al prezzo di 16 lire, un mese dopo l’apparizione del Contrat social, passato quasi inosservato.

 

Immediatamente il successo e l’emozione furono considerevoli. Il 26 Bachaumont nota che l’Emilio ‘faceva gran rumore’; cinque giorni dopo, che esso ‘era occasione di crescente scandalo… La spada e l’incenso si alleano contro l’autore; e i suoi amici gli hanno dimostrato che c’è motivo di temere per lui’. In effetti, il 3 giugno il libro viene sequestrato.

 

Il 4, l’editore Duchesne scrive a Rousseau:

 

Vi informo con rincrescimento che la polizia ha interrotto la nostra attività e che non possiamo vendere nulla.

 

I pochi esemplari che si possono vendere clandestinamente raggiungono le 42 copie.

 

Le reazioni dell’opinione pubblica sono così accese che la giustizia sarà costretta ad agire con severità. Con procedimento d’urgenza fu decisa l’azione penale e venne formulato il verdetto. Due giorni dopo le ferie della Pentecoste, la mattina del 19 giugno, la prima sezione del Parlamento decretava l’arresto dell’autore e condannava l’opera alle fiamme. La condanna fu decisa con undici voti, il minimo necessario per la legalità dell’arresto.




Votarono contro tutti i vecchi magistrati, attaccati alla tradizione. Si astennero i liberali, tra gli altri Hénault e Malesherbes. L’11 il volume veniva bruciato dal carnefice sui gradini del grande scalone. Si volle arrestare Rousseau ed egli sarebbe volentieri rimasto per difendere la propria innocenza, se non gli fosse stato detto che la fuga era necessaria per la sicurezza dei suoi ospiti e per la sua personale salvezza.

 

Così il 9 giugno lascia Montmorency per raggiungere Pontarlier; il 14 si stabilisce a Yverdon, sul territorio di Berna, donde, poco dopo, la condanna del libro a Ginevra lo costringe a cercare asilo nel villaggio di Motiers-Travers, nella regione del Giura.

 

Il 18 giugno il sinodo di Ginevra e il 19 il Consiglio minore pronunciano il loro verdetto. Lo stesso giorno, insieme con il Contrat social, l’Emilio è bruciato dal carnefice dinanzi alla porta del Municipio. Analoga misura viene decisa in Olanda. Più lenta, la Sorbona rinvia dal 1º luglio al 2 agosto l’esame dell’opera, censurata infine nel novembre.




Un breve del papa Clemente XIII ai dottori della Sorbona (26 ottobre 1763) approva la condanna.

 

Dal 9 settembre 1762 il libro era stato messo all’Indice e vietato ai fedeli da una pastorale dell’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont L’assemblea generale del clero di Francia, riunita nel 1763, si pronunciò nello stesso senso.




Gli avversari personali si accodarono alle autorità. Ci fu una valanga di libelli, come l’Anti-Emile di Formey, come gli scritti dell’abate André, di don Cajot, di padre Griffet: un vero accesso di rabbia contro questi paradossi ‘che fanno stridere i denti’.

 

Gli spiriti religiosi si irritarono: ‘È davvero il libro più infernale che sia stato mai fatto’, scrive il Delfino, figlio di Luigi XV, al vescovo di Verdun. In una lettera a Damilaville (4 giugno 1762), Voltaire schernisce: ‘Io non ho ancora questa Educazione dell’uomo più maleducato che esista al mondo’.

 

Dopo che ebbe ricevuto, il 14 giugno, questo ‘guazzabuglio’, pur riconoscendo, come abbiamo già visto, la bellezza letteraria della Profession de foi, egli deplora ‘l’incoerenza’ di un autore che ingiuria contemporaneamente i filosofi e Gesù Cristo. Perciò non prova alcuna indignazione nel saperlo bruciato a Ginevra ‘nella persona del suo insipido Emilio’.

 

Madame Deffand rincara la dose: ‘Jean-Jacques mi è antipatico’ gli scrive il 25 giugno 1764 ‘riprecipiterebbe tutto nel caos; non ho mai visto nulla di più contrario al buon senso del suo Emilio’.

 

Grimm si rammarica che Rousseau abbia fatto un’opera didattica, piena di regole, di principi, di massime: secondo lui, avrebbe dovuto darci la storia o il romanzo della sua educazione e utilizzare il suo progetto di Traité d’éducation, in cui era riservato un posto a tutte le professioni. L’anno seguente riprendeva, non senza perfidia, le sue critiche e, poco generosamente, faceva pronunciare da Diderot una requisitoria, che quest’ultimo avrebbe ripreso più tardi a nome proprio.




 L’amico di un tempo definiva Rousseau ‘uomo incline agli eccessi… oscillante tra l’ateismo e il battesimo delle campane’ e lamentava che quel ‘pasticcio’ della Profession de foi avesse fatto girare tante teste. In verità, come sappiamo, fu proprio questo magnifico capolavoro che servì da pretesto a tante persecuzioni ufficiali e fece nascere contro Rousseau tante inimicizie personali. Ma un accanimento così unanime deve spiegarsi con una serie di ragioni diverse.

 

Innanzi tutto il libro era apparso proprio nel momento in cui il Parlamento si preparava ad espellere i Gesuiti. Per placare in anticipo l’opinione pubblica, esso non esitò a proscrivere un autore la cui condanna sembrava una testimonianza d’imparzialità.

 

Nocque anche a Rousseau proprio ciò che costituiva per lui il più alto titolo d’onore: egli aveva osato firmare la sua opera, mentre la maggior parte degli scrittori, Voltaire per primo, pubblicavano le loro anonime o ricorrendo a un prestanome. Donde questa singolare accusa della requisitoria: ‘L’autore di questo libro, non avendo avuto timore di far conoscere il suo nome, merita di essere immediatamente perseguito’.

 

D’altro canto, se l’Emilio fu più largamente attaccato del Discours sur l’inégalité, in cui Rousseau svolgeva le stesse idee, è perché il tono provocante dello scrittore era tale da scontentare molte persone. I filosofi, anche se egli non li avesse da gran tempo abbandonati di propria iniziativa, lo avrebbero messo al bando per aver detto: ‘Il disordine morale, che secondo i filosofi è una prova contro la Provvidenza, ai miei occhi è invece una dimostrazione della sua esistenza’.




I dotti non gli perdonavano di aver dichiarato ‘che ci sono più errori nell’Accademia delle Scienze che in tutto un popolo di Uroni’ (libro quarto). Gli accademici erano irritati contro di lui perché, riportando l’iscrizione delle Termopili, vi aveva aggiunto la seguente riflessione: ‘Si vede bene che non appartiene all’Accademia delle Iscrizioni l’autore di questa’ (libro terzo).

 

Infine i privilegiati di un’epoca che faceva ancora assegnamento sulla stabilità della fortuna e delle condizioni potevano accettare un libro in cui tutti i pregiudizi sociali erano apertamente attaccati?

 

Rousseau sembrò sulle prime stupito di queste molteplici manifestazioni di animosità, come se non le avesse provocate e previste. Ma ben presto, di fronte all’inanità delle sue lagnanze e alla impossibilità legale di difendersi, cominciò a reagire coraggiosamente.

 

Non abbiamo qui spazio sufficiente per riferire nei particolari le polemiche parigine e ginevrine che fecero seguito per parecchi anni alla pubblicazione dell’Emilio e di cui le Lettres de la montagne (1764) segnano il momento più intenso. Basterà ricordare con quale appassionata dignità il vinto rispose alla pastorale dell’arcivescovo di Parigi nella bellissima Lettre à Christophe de Beaumont. Discutendo punto per punto le accuse del prelato, giustifica, con logica e con passione, la sua condotta, la sua dottrina e il suo libro. Questa opera vale per la sua indignazione, per la sua sincera eloquenza. Soprattutto essa presenta per noi l’interesse di mostrare la fede di Rousseau in un’opera che gli diverrà sempre più cara, man mano che a causa di essa conoscerà maggiormente l’orgogliosa amarezza della vita errabonda, dell’abbandono, della follia.




 INTRODUZIONE 

 

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo. Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo; tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sé come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino.

 

Pure, se così non fosse, tutto sarebbe ancora peggiore: la nostra specie non ammette di essere formata a metà. La situazione è ormai tale che un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita in mezzo ai suoi simili, sarebbe il più deforme di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali in cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza nulla sostituirle. In un uomo siffatto essa avrebbe vita stentata, quasi arboscello cresciuto per caso in mezzo a una strada e che i passanti fanno ben presto perire urtandolo da ogni parte, piegandolo in ogni senso.

 

A te mi rivolgo, madre amorosa e previdente, a te che hai saputo discostarti dalla strada battuta da tutti e proteggere l’arboscello nascente dall’urto delle opinioni umane! Coltiva ed abbevera la giovane pianta prima che muoia: i suoi frutti saranno un giorno la tua gioia. Erigi al più presto un recinto intorno all’animo del tuo fanciullo; altri potrà indicarne il tracciato, ma tu sola devi costruirvi la barriera.




Le piante si coltivano, gli uomini si educano. Se l’uomo venisse al mondo grande e robusto, statura e forza gli sarebbero inutili, finché non avesse imparato a servirsene; gli riuscirebbero anzi dannose, impedendo agli altri di prendersi cura di lui; abbandonato a se stesso, morirebbe prima ancora di aver conosciuto i propri bisogni. È consuetudine commiserare la condizione dell’infanzia: non si comprende che la specie umana sarebbe perita, se l’uomo non avesse cominciato a vivere come fanciullo.

 

Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forza; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che alla nascita non possediamo e che ci sarà necessario da adulti ce lo fornisce l’educazione.

 

L’educazione ci viene impartita o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini c’insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l’educazione delle cose.

 

Ognuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo in cui i loro diversi insegnamenti si contraddicono riceve una cattiva educazione e non sarà mai in armonia con se stesso; ma se tali insegnamenti vertono tutti sugli stessi punti e tendono agli stessi fini, allora il discepolo raggiunge la sua meta e vive in modo coerente. Egli solamente è educato bene.




Ma delle tre diverse forme di educazione quella della natura è del tutto indipendente da noi e quella delle cose non dipende da noi che in parte. Solo l’educazione degli uomini è davvero in nostro potere; e anche questo potere è piuttosto teorico, poiché chi mai può sperare di controllare interamente discorsi ed azioni di tutti coloro che vivono intorno a un fanciullo?

 

Nella misura dunque in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poiché l’armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno. Tutto quel che si può fare, usando ogni possibile premura, è avvicinarsi più o meno alla meta, ma per raggiungerla ci vuole fortuna.

 

E qual è questa meta? È la stessa della natura, come abbiamo dimostrato poc’anzi. Poiché il concorso delle tre forme di educazione è necessario al loro perfetto compimento, occorre armonizzare con quella che non dipende da noi anche le altre due. Ma forse la parola natura ha un senso troppo vago: cerchiamo di determinarlo.

 

La natura, sentiamo ripetere, non è che l’abitudine.

 

Che significa ciò?




Non vi sono forse abitudini che si contraggono per costrizione e che, tuttavia, non giungono mai a soffocare la natura? Si pensi, ad esempio, all’abitudine contratta da certe piante di cui si ostacola la crescita in senso verticale. Lasciata libera, la pianta conserva l’inclinazione che fu costretta ad assumere; ma non per questo la linfa ha mutato la sua direzione iniziale e, se la pianta vegeta ancora, il suo prolungamento torna verticale.

 

Lo stesso accade per le inclinazioni degli uomini.

 

Finché restiamo nello stesso stato, possiamo conservare quelle provocate dall’abitudine e che sono per noi le meno naturali; ma non appena la situazione cambia, l’abitudine viene meno e la natura riprende il sopravvento. L’educazione certamente non è altro che un’abitudine. Ma non vi sono forse persone che dimenticano e perdono la propria educazione, mentre altre la conservano?

 

Donde ha origine questa differenza?

 

Se si deve limitare la definizione di natura alle abitudini conformi alla natura stessa, tanto vale fare a meno di questa vuota perifrasi.

 

Nasciamo dotati di sensibilità e, fin dalla nascita, riceviamo impressioni diverse dagli oggetti che ci circondano. Non appena acquistiamo, per così dire, coscienza delle nostre sensazioni, abbiamo tendenza a ricercare o a fuggire gli oggetti che le producono: dapprima, per il solo effetto gradevole o sgradevole delle sensazioni stesse; poi, a seconda della conformità o della estraneità che rileviamo tra noi e quegli oggetti; e infine guidati dal giudizio che ne diamo in base all’idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione.




Queste disposizioni si estendono e si consolidano via via che si sviluppano in noi sensibilità ed intelletto; ma, tenute a freno dalle abitudini, vengono inoltre variamente alterate dalle nostre opinioni. Prima che l’alterazione si produca, tali disposizioni costituiscono in noi quella che io chiamo natura.

 

Su queste disposizioni primitive dovrebbe dunque fondarsi ogni azione educativa; e ciò sarebbe possibile, se le nostre tre forme di educazione fossero soltanto diverse: ma che fare quando sono addirittura opposte, quando, anziché educare un uomo per se stesso, si vuole educarlo per gli altri? In tal caso l’armonia diventa impossibile. Di fronte alla necessità di contrastare o la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidere se formare un uomo o un cittadino: formare l’uno e l’altro insieme non si può.

 

Ogni società particolare, non troppo estesa e intimamente unita, si distacca dalla grande società umana. Il patriota è sempre duro verso gli stranieri: sono soltanto uomini e non hanno alcun valore ai suoi occhi. Questo inconveniente è inevitabile, ma non grave. L’essenziale è comportarsi bene verso coloro con i quali viviamo. Fuori della sua città lo Spartano era ambizioso, avaro, iniquo, ma dentro le mura di Sparta regnavano il disinteresse, l’equità, la concordia. Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercarsi remoti doveri sulle pagine dei libri e non si degnano di compierne intorno a loro. Vi sono filosofi che amano i Tartari, per essere dispensati dall’amare i propri vicini.




L’uomo naturale è un’entità del tutto a sé stante, è l’unità numerica, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o col suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria condizionata dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale.

 

Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell’unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito.

 

Un cittadino romano non era né Caio né Lucio: era un Romano, e giungeva ad amare la patria fino al totale oblio di se stesso. Regolo pretendeva di essere Cartaginese, in quanto divenuto proprietà dei suoi nemici, e coerentemente, ritenendosi straniero, rifiutava di sedersi nel Senato di Roma: fu necessario che un Cartaginese glielo ordinasse. Ma poi si indignava perché i concittadini volevano salvargli la vita. Ed ebbe partita vinta e se ne tornò trionfante a morire tra le torture. Esempi siffatti, se non m’inganno, hanno poca affinità con gli uomini che oggi conosciamo.

 

Lo spartano Pedarete si presenta per essere ammesso nel Consiglio dei trecento, ma è respinto: se ne torna a casa tutto contento, perché a Sparta si sono trovati trecento uomini più valenti di lui. Io ritengo sincero questo suo atteggiamento e c’è motivo di credere che realmente lo fosse: ecco il cittadino.




Una donna spartana aveva cinque figli soldati e attendeva notizie sull’esito della battaglia. Arriva un ilota ed a lei che, tremante, lo interroga, annunzia: ‘I vostri cinque figli sono stati uccisi’. ‘Vile schiavo, è forse questo che ti ho domandato?’ ‘Abbiamo riportato vittoria!’ E la madre corre al tempio e rende grazie agli dei. Ecco la cittadina.

 

Colui che nell’ordine civile vuol conservare il primo posto ai sentimenti naturali non sa quello che vuole. Sempre in contraddizione con se stesso, sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mai né uomo né cittadino, non sarà buono né per sé né per gli altri; sarà un uomo dei nostri tempi, un Francese, un Inglese, un borghese; non sarà niente.

 

Per essere qualcosa, per essere se stessi e sempre coerenti a se stessi, bisogna agire come si parla; bisogna essere decisi sul partito da prendere, prenderlo a viso aperto e non staccarsene mai. Aspetto che mi si faccia vedere un così prodigioso individuo, per sapere se sia uomo o cittadino, oppure come faccia ad essere l’uno e l’altro ad un tempo.

 

Da questi due obiettivi necessariamente opposti derivano due forme contrarie di istituzioni educative: l’una pubblica e collettiva, l’altra privata e domestica.




Chi voglia avere un’idea dell’educazione pubblica, legga la Repubblica di Platone. Non è affatto un’opera politica, come ritiene chi giudica i libri solo dal titolo: è il più bel trattato di educazione che sia mai stato scritto.

 

Quando si vuol citare ad esempio un paese chimerico, si tirano in ballo le istituzioni educative di Platone: se Licurgo si fosse limitato a mettere le sue per iscritto, le troverei più chimeriche ancora. Platone ha soltanto purificato il cuore dell’uomo, Licurgo lo ha snaturato.

 

L’educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perché dove non è più patria non possono essere più cittadini. Queste due parole, “patria” e “cittadino”, debbono essere cancellate dalle lingue moderne. Ed io ne so bene la ragione, ma non voglio dirla, perché non ha nulla a che fare col mio tema.

 

Non considero come esempi di educazione pubblica quei ridicoli istituti chiamati collegi. Né faccio maggior conto dell’educazione derivante dalla società, perché, mirando a due fini contrari, li fallisce entrambi: essa è capace soltanto di formare uomini ipocriti, che fanno sempre mostra di altruismo, mentre si preoccupano esclusivamente di se stessi. Ma poiché queste ipocrisie sono comuni a tutti, non ingannano nessuno. È tutta fatica sprecata.

 

Da queste contraddizioni nasce quella che sentiamo incessantemente in noi stessi. Trascinati dalla natura e dagli uomini in direzioni contrarie, costretti a dividerci tra questi impulsi diversi, finiamo per seguire una forza risultante, che non ci conduce né all’una meta né all’altra. Così, combattuti e ondeggianti per tutta la vita, ci ritroviamo al termine estremo senza aver raggiunto l’armonia interiore, senza essere stati utili né a noi stessi né agli altri.




Resta infine l’educazione domestica o quella della natura, ma che cosa sarà mai per gli altri un uomo educato unicamente per sé?

 

Se fosse possibile fondere in uno solo il duplice scopo che ci si propone, forse, rimuovendo le contraddizioni dell’uomo, si eliminerebbe un grosso ostacolo alla sua felicità. Ma per poter giudicare di lui, bisognerebbe vederlo interamente formato; bisognerebbe averne osservato le inclinazioni, averne seguito i progressi grado per grado; bisognerebbe, in una parola, conoscere l’uomo naturale. Io credo che, leggendo il presente lavoro, si farà qualche passo innanzi in tali ricerche.

 

Che cosa dobbiamo fare per formare quest’uomo raro?

 

Molto, indubbiamente: vegliare perché nulla sia fatto.

 

Quando occorre navigare contro vento, si bordeggia; ma se il mare è violento e si vuole restare fermi, bisogna gettare l’ancora. Sta’ attento, o giovane pilota, a non lasciar filare la gomena, bada che l’ancora non slitti sul fondo e che la tua imbarcazione non vada alla deriva prima che tu te ne accorga.

 

Nell’ordine sociale, in cui ogni posizione è distinta dalle altre, ciascuno deve essere educato in rapporto a quella che occupa. Se un individuo abbandona la posizione sociale per cui è stato preparato, non è più capace di far nulla. L’educazione è utile solo a patto che la scelta della professione operata dai genitori sia sorretta dalla fortuna; diversamente nuoce all’allievo, non foss’altro che per i pregiudizi che gli ha inculcati.




In Egitto, dove il figlio era obbligato ad abbracciare la condizione del padre, l’educazione aveva almeno uno scopo sicuro; ma nella nostra società, in cui solo i ceti sociali sono durevoli, mentre i singoli uomini passano continuamente dall’uno all’altro, nessuno può sapere, quando educa il figlio in conformità del proprio ceto, se non lo danneggi.

 

Nell’ordine naturale, poiché gli uomini sono tutti eguali, la loro vocazione comune è la condizione umana; e chiunque sia stato ben preparato a tale condizione, non può non assolvere egregiamente i compiti che ne derivano. Che il mio alunno sia destinato alle armi, alla Chiesa o alla toga, poco m’importa. Prima che i genitori scelgano per lui una professione, la natura lo chiama alla vita umana.

 

Ed io intendo insegnargli l’arte di vivere.

 

Uscendo dalle mie mani, lo ammetto, egli non sarà magistrato, né soldato, né sacerdote; sarà innanzi tutto uomo: a tutti i doveri propri di un uomo egli sarà in grado di far fronte al pari di qualsiasi altro e, per quanto la fortuna possa fargli mutar condizione, egli si sentirà sempre al suo posto. Occupavi te, Fortuna, atque cepi; omnesque aditus tuos interclusi ut ad me adspirare non posses.




Il vero oggetto del nostro studio è la condizione umana. Il meglio educato tra noi è, a parer mio, colui che meglio sa sopportare i beni e i mali di questa vita; ne consegue che la vera educazione non è fatta di precetti, ma di esercizi. Noi cominciamo ad istruirci nell’atto stesso in cui cominciamo a vivere; la nostra educazione ha inizio con la nascita e il nostro primo precettore è la nutrice. Si spiega così come la parola “educazione” avesse per gli antichi un significato che per noi non ha più: “allevamento”. Educit obstetrix, dice Varrone, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister.

 

Così tra queste tre attività dell’allevare, dell’educare e dell’istruire vi è tanta diversità quanta ne intercorre tra nutrice, precettore e maestro. Ma tali distinzioni vengono fraintese e il bambino, per essere ben diretto, deve affidarsi a una sola guida.




Occorre dunque dare ai nostri propositi un carattere più generale e considerare nel nostro allievo l’uomo astratto, l’uomo soggetto a tutte le vicissitudini della vita umana. Se gli uomini fossero perpetuamente legati al suolo su cui nacquero, se la stessa stagione durasse per l’intero anno, se ciascuno fosse così vincolato alla condizione avuta in sorte da non potersene mai distaccare, la pratica ormai affermatasi sarebbe relativamente buona; educato in funzione del suo stato e mai desideroso di mutarlo, il fanciullo non potrebbe, divenuto uomo, trovarsi esposto agli inconvenienti di uno stato diverso.

 

Ma se si considera la mutevolezza delle vicende umane, lo spirito irrequieto e volubile di questo secolo che tutto sconvolge ad ogni generazione, quale metodo potrebbe apparirci più insensato che educare un fanciullo come se fosse destinato a non uscir mai dalla sua camera e ad essere sempre circondato dai suoi?

 

Se l’infelice fa un passo sulla terra, se solo discende di un gradino, è perduto. Così non impara a sopportare il dolore, ma si esercita a sentirlo più intensamente.




Si pensa soltanto a conservare il proprio bambino: non è sufficiente; occorre insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare le percosse del destino, a sfidare l’opulenza e la miseria, a vivere, se necessario, tra i ghiacci dell’Islanda o tra le rocce infocate di Malta.

 

Usate pure ogni possibile precauzione perché non muoia: dovrà ben morire una volta; e quand’anche la sua morte non fosse effetto delle troppe attenzioni, queste sarebbero pur sempre inopportune. Non importa tanto impedirgli di morire, quanto farlo vivere.

 

E vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere. L’uomo che ha vissuto di più non è quegli che può annoverare il maggior numero d’anni, ma colui che più intensamente ha sentito la vita. V’è chi s’è fatto sotterrare a cento anni, ed era morto fin dalla nascita. Meglio sarebbe stato per lui scendere nella tomba ancor giovane, pur che avesse veramente vissuto fino a quel tempo.

 

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili, tutte le nostre consuetudini si risolvono nell’asservimento, nella costrizione. L’uomo civile nasce, vive e muore nella schiavitù: alla nascita lo imprigionano nelle fasce; alla morte lo inchiodano in una bara; finché conserva sembianze umane, è incatenato dalle nostre istituzioni.

 

Si dice che molte levatrici, manipolando la testa dei neonati, pretendano di darle forma migliore: e le si lascia fare! Le nostre teste sarebbero dunque malfatte così come le creò l’Autore del nostro essere: bisogna che siano riplasmate esternamente dalle levatrici, all’interno dai filosofi. I Caraibi sono di una metà più fortunati di noi. 

(J. J. Rousseau)








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