In riferimento
alla predica
Di cosa, i diavoli di questo èvo sono capaci, solo il Dio che da sempre combatte le schiere del maligno e ne presiede giusto o ingiusto ‘fine’ ed ‘intento’ attraverso ogni Suo Elemento, da cui ‘santi dèmoni’ del Suo e Nostro Tempo, ne preannunziano il miracolo o triste accadimento nella materia naufragato!
Cosa, in veritate et per lo vero, gli
Elementi del Sacro siano davvero, tra poco li esporremo all’oblio come
preghiere al vento per ogni goccia immagine del Divino, dall’alta crosta del Tetto, sino
allo più umile convento.
Ed il piacere, oppure, al roverso, la
paura d’udirne il lento o mutato
fraseggio, qual timore del cambiamento per ogni Stagione transitata e quantunque pregata, solo Loro,
in veritate e per lo vero, possono descriverne il lento oblio dello Spirito
immutato disceso e divenuto Sacro Elemento!
Accompagnare frate meco lo piede nel
lento cammino della sofferta ulcerata Rima, oppure e allo contrario, allo
strano tremore che una sola, una sola goccia siede alla destra o alla sinistra
del trono di Dio come un diamante maledetto e da ognun Nessun escluso:
maledetto!…
Annunziare una strana Stagione senza il Tempo del proprio Dio, che questo sia Eretico pagano laico o artodosso, o quantunque figlio d’un profeta nominato Maometto, il Diavolo riconosciamo nella graduale sua discesa e che non c’accompagni nell’abisso della guerra!
E così s’annunzia l’Autunno presagire un più rigido Inverno come sempre fu e sarà ancora?
Ma hora, in quest’umile hora, senza
il tempo del Dio che l’ha creata materia, seppur il loro Dialogo mutato,
percepiamo et udiamo la lenta discesa o ‘caduta’ nell’inferno Abisso di questa
Terra, non più annunziare lieta novella, nell’apparente ‘caso’ della parola
nata donare il Sacro e lo stupore che dalla muta goccia che l’accompagna et
adorna come e più la più splendida miniatura, in neve ghiaccio et gioia,
seppur il freddo assieme a frate vento ci ricorda un’antica avventura pregata
ancora…
Fondare sano e più duraturo Intelletto per il Dio che l’ha comandata dal Regno Suo senza il Tempo per goderne la bellezza che avanza seminare il principio della vita.
Così l’udire la prosa d’ogni Elemento
a noi pare vero diletto, se poi son nominati demoni del cielo poco si è
compreso dell’intero progetto circa lo vero e più sano Architetto. Quantunque
nel tempo narrato per ogni stagione ove questa si posa ancora, noi abbiamo
compreso il lento mutare della vita e simmetricamente alla stessa, ogni dèmone
della terra il genio di dio che li sprona nell’apparente caso divenuto
comandamento, avendo facoltà di mutarne il principio dall’uomo numerato
(nell’ordine dallo stesso inumano intendimento presieduto, o meglio che dico?
posseduto per conto di Mammona et hora divenuto una bestia da fiera!) come
prodigiosa e più lecita scienza in nome della presunta Conoscenza, hora et in
quest’hora, divenuta inutile seppur dotta saccenza!
Ciò, in veritate e per lo vero, in
quest’hora abbiamo compreso!
Udire l’inverno della prima neve che bussa alla porta ad annunziare la sua Rima nel miracolo del Dio fuori dal loro piccolo Universo, per la Prosa della stagione che apparentemente muore per poi risorgere ancora.
Solo la misera scienza dell’uomo
perderà il nesso della vita che lenta affoga nell’inferno dell’odio per ogni
guerra!
Udire ogni goccia che narra la Sua
avventura una preghiera che rinnova la Sua Eterna venuta.
Udire, però, una sola, una sola
goccia mischiarsi con le altre come improprio Elemento e confondere
l’Intelletto di Dio, per cadere non più nel Suo Tempo e destino, così come la
Vita dell’intero Creato, e lo Spirito che scende su questa martoriata Terra; ci
pare di distinguerne la parola di Lucifero preannunziare lo triste suo impero.
Ci pare la bestemmia di questo nuovo èvo che tutto confonde e muta in guerra
per ogni Elemento!
Ci pare d’udire l’inganno di questo niente
et nulla creato…
La predicazione di Francesco d’Assisi alla luce dei suoi scritti e delle fonti biografiche medievali, paragonandola all’ars praedicandi dell’epoca pone l’accento sull’evoluzione, sia dei contenuti del suo annuncio, sia della forma di trasmettere il messaggio cristiano, enucleando anche alcune indicazioni che l’Assisiate ha formulato a tale proposito per i suoi frati.
Uno
dei momenti chiave nella trasformazione della predicazione esercitata da Francesco viene
individuato nell’assunzione degli ordini sacri, ossia nell’essere diventato
diacono, e nella graduale acquisizione di una basilare erudizione teologica,
avvenuta anche attraverso l’ascolto dei testi liturgici.
Secondo
gli storici del Medioevo, in quest’epoca si possono individuare tre periodi nei quali la
predicazione si differenzia in maniera notevole: nell’alto Medioevo, fino all’anno Mille, a predicare sono
soprattutto i vescovi che si rivolgono principalmente al clero e ai monaci; nei secoli XI e XII, ossia dalla
riforma gregoriana in poi, nella predicazione sono sempre più impegnati i
sacerdoti, e con il moltiplicarsi delle scuole cattedrali e con la nascita
delle università i discorsi al clero e ai religiosi diventano sempre più dotti
e molto più spesso sono rivolti al popolo; finalmente
nel terzo periodo, il cui inizio coincide con
i tempi di Francesco d’Assisi, si diffonde una vera e propria predicazione
popolare e si afferma anche un nuovo tipo di sermone, sermo modernus, nato già verso la metà del secolo XII.
Al contempo nascono le artes praedicandi, ossia manuali, talvolta molto sintetici, talvolta piuttosto ampi, che spiegano come si costruisce il sermo modernus.
Uno
dei primi manuali del genere fu scritto dal teologo parigino Alano di Lilla (1125-1202), ma molto presto ne
nacquero altri, composti anche dai francescani, come Giovanni de La Rochelle,
Gilberto di Tournai e Giovanni del Galles (una Ars concionandi viene attribuita
perfino a san Bonaventura). Non voglio dire che Francesco predicava seguendo il
modello del sermo modernus, tuttavia,
per capire il racconto dei biografi e degli agiografi dell’Assisiate sulla sua
predicazione dobbiamo conoscere questo genere dell’arte oratoria: le loro descrizioni
utilizzano infatti le categorie retoriche tipiche del sermo modernus.
A differenza dell’omelia, che intendeva l’esposizione di un’intera pericope biblica così come lo facevano i padri della Chiesa antica, il nuovo sermone prende come punto di partenza soltanto un versetto, cosiddetto thema, questo però può essere preceduto anche da un prothema, una specie di prologo, nel quale il predicatore riflette sulle condizioni dell’ascolto, sulla natura del verbo di Dio o sulla rivelazione divina, prepara gli ascoltatori ad accogliere la parola rivelata e chiede la luce dello Spirito santo per loro e per sé stesso, terminando con una preghiera.
Finito
il prothema, il predicatore propone
una divisione del thema, enucleando
nel versetto biblico gli elementi che corrispondono alle principali parti del
sermone. Di solito la principale suddivisione prevede da due a quattro sezioni
che si ramificano ulteriormente ad arte, secondo numeri uguali e mantenendo una
specie di simmetria.
Secondo Tommaso da Spalato, che ricorda la predica di Francesco tenutasi a Bologna il 15 agosto 1222, l’Assisiate ‘non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un concionatore’. Con queste parole il cronista dalmata sembra voler dire che Francesco si esprimeva come gli oratori borghesi dell’epoca anziché come un chierico. Si potrebbe pensare quasi a un comizio politico di oggi. Ce lo conferma anche l’incipit (o l’esordio) di questa predica che non è affatto un versetto biblico: essa attacca sulle parole:
Gli angeli, gli uomini, i demoni
“Parlò così bene e chiaramente di queste tre specie di spiriti razionali, che molte persone dotte, ivi presenti, rimasero non poco ammirate per quel discorso di un uomo illetterato. Eppure egli non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un conciliatore. In realtà, tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace. Portava un abito sudicio; la persona era spregevole, la faccia senza bellezza. Eppure Dio conferì alle sue parole tale efficacia che molte famiglie signorili, tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato fino allo spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. Grandissime erano poi la riverenza e la devozione della folla, al punto che uomini e donne si gettavano alla rinfusa su di lui, con bramosia di toccare almeno le frange del suo vestito o di impadronirsi di un brandello dei suoi panni”.
A distanza di tanti anni, dunque, Tommaso da Spalato ancora ricordava la miserabile figura di Francesco, il suo volto nient’affatto gradevole e la sozzura delle sue vesti.
Con
tutta evidenza, non era dunque il suo aspetto fisico a colpire gli ascoltatori,
convenuti numerosissimi, neppure si può dire che Francesco curasse la propria
immagine: piuttosto — questo sì! — si sforzava di occuparsi della propria
anima, e Dio faceva il resto, perché gli uomini di Dio — quando sono veramente
tali — fanno leva non sulle apparenze, ma sulla potenza dello Spirito.
Quanto
attuale risulta allora, anche in questo, la sua figura, quando da troppe parti
e con troppa virulenza ci vien detto che ciò che conta è apparire, non importa
come, e che il non apparire equivale a non esistere!
Preziosissima si rivela poi la notazione riguardo allo stile della predicazione di Francesco, che lasciava scorgere in lui un ‘oratore politico’ (contionator), più che un predicatore vero e proprio. La contio era un’assemblea di popolo, il contionator quello che oggi si direbbe un comiziante, il quale — secondo quanto insegnava un maestro del tempo, e cioè Boncompagno da Signa nella sua Rethorica novissima — doveva fortemente impressionare l’uditorio, non tanto e non solo con le parole, quanto anche con le proprie espressioni e i propri gesti.
Secondo
Erik Auerbach, tutto quello che Francesco fece, dal
momento della conversione fino al giorno della sua morte, ‘fu una rappresentazione; e le sue rappresentazioni erano di tale forza
che egli trascinava con sé tutti coloro che lo vedevano o ne avevano soltanto
notizia’.
Attraverso queste sue rappresentazioni egli riconobbe i suoi errori, come quando ad Assisi, dopo aver predicato sulla piazza antistante la chiesa di San Rufino, ammise che durante una quaresima (con tutta evidenza, nella quaresima detta di san Martino, che precedeva il Natale del Signore) aveva mangiato carne e brodo di carne. Ancora ricorrendo a tale espediente corresse i suoi frati, come quando a Greccio, nel giorno di Natale di un anno imprecisato, vedendo che la mensa comunitaria era stata riccamente imbandita, uscì di nascosto e si ripresentò alla porta travestito da mendicante, suscitando commozione e pentimento tra di essi:
‘Quale idea geniale da palcoscenico —
scrisse ancora Auerbach — di
prendere il cappello e il bastone di un povero e di mendicare presso dei
mendicanti! Ci si può immaginare lo sbalordimento e la vergogna dei frati
quando egli col piatto si siede sulla cenere dicendo: Adesso sto seduto come un
vero frate minorita…’.
Francesco non seguiva dunque le regole tipiche del genere predicatorio, ma piuttosto manteneva una stretta aderenza al vissuto quotidiano. Non solo: la sua non era una predicazione esclusivamente verbale, bensì faceva ricorso a tutti gli strumenti che aveva a disposizione.
Tra
gli agiografi del Santo, è Tommaso da
Celano a rivelare una spiccata attenzione alla corporeità di Francesco, alla sua
capacità di predicare anche con il corpo, fino a fare di esso una lingua, come
scrisse con espressione efficace, accentuandone gli aspetti drammatici.
In
fondo, è proprio questa fisicità, questa concretezza di uomo in carne ed ossa
ad emergere dal racconto della predica che Francesco tenne davanti a Onorio III e
ai cardinali. Il Celanese narra infatti che nel corso di quella per molti aspetti delicatissima predicazione,
Francesco, non
riuscendo più a contenersi per la gioia, mentre parlava muoveva i piedi, quasi
stesse saltellando.
L’agiografo, in questa circostanza, riferisce onestamente i fatti così come gli erano stati narrati: valga a testimoniarlo la descrizione del timore che pervase il cardinale Ugo di Ostia di fronte a un simile modo di fare. Tommaso precisa pure che il Santo si comportò in quella maniera ‘non come chi scherzi’, ma perché ardeva del fuoco dell’amor divino, motivo per cui una tanto strana predicazione non provocò il riso degli ascoltatori, quanto piuttosto un pianto di dolore: una precisazione che mostra tutta la difficoltà incontrata dall’agiografo dinanzi all’insolito comportamento di Francesco e perciò ne rafforza l’autenticità.
Nondimeno,
quel che più colpisce nel racconto di quanto accadde a Bologna il 15 agosto del 1222, è il fatto che la persona di Francesco, seppur spregevole e senza bellezza, per la
forza che Dio impresse alle sue parole, fece sì che molte famiglie signorili, in guerra tra loro, fossero piegate a consigli di pace.
Troverebbe eguale ascolto, oggi, la sua parola, quando a prevalere sembra essere piuttosto una voglia sfacciata di mostrare i muscoli, una tendenza a escludere piuttosto che a includere, un bisogno quasi insopprimibile di belligeranza?
DEMONI
Per
entrare nel mondo dei demòni, e per l’esatta comprensione dei termini demònio e
diavolo, occorre prendere le distanze da quello che nella cultura occidentale viene
raffigurato come un essere orribile e malefico, la cui vivace rappresentazione
si ha nell’inferno di Dante o in certi affreschi medioevali del Giudizio
universale, così come è necessario distinguere nettamente la terminologia e
separare il diavolo (o il satana) dal demònio.
Nel linguaggio popolare si può parlare indifferentemente di diavolo e di demònio, confondendo e unendo due realtà che nella Bibbia sono sempre mantenute diverse e distinte. Nella lingua greca inoltre si distingue tra dèmone, termine che ricorre nei testi classici con il significato di divino, per indicare un essere intermedio fra dio e l’uomo, e demònio che è la forza che promana dal dèmone, ma meno potente e più limitata nel tempo.
Con
il termine dèmone in origine si indica ogni essere divino e nei testi più
antichi non esiste alcuna differenza tra dèmone e dio. Omero non fa ancora
distinzione tra dèi e dèmoni. Secondo Plutarco ‘fu Esiodo il primo a
distinguere in modo chiaro e preciso quattro generi di esseri razionali: dèi,
dèmoni, eroi, e infine uomini. Tra questi sembra che molti uomini virtuosi dell’età
d’oro si mutassero in dèmoni, così come alcuni semidèi discesero al rango di eroi’.
Condividendo la possibilità di un passaggio da una categoria all’altra, Plutarco scrive che ‘lside e Osiride erano all’inizio solo dei dèmoni buoni, e furono poi trasformati in dèi per la loro virtù.
Nella
distinzione tra dio e dèmone, dio veniva usato per gli esseri divini superiori,
dèmone era riservato per entità minori che non erano considerate immortali.
Infatti a differenza degli dèi si riteneva che i dèmoni invecchiassero e poi,
dopo molti secoli, morissero. Esiodo arrivò a calcolare la durata della loro
vita, che stabilì in 9720 anni. Secondo la concezione dell’epoca, mentre agli
dèi era stato assegnato lo spazio dal cielo alla luna, dove l’aria era più pura
(l’etere), ai dèmoni erano riservati gli spazi dalla luna alla terra, dove l’aria,
a causa dei vapori e delle foschie, era considerata impura. La bontà o
malvagità del dèmone dipendeva dalla sua provenienza: più bassa era la posizione
del dèmone nella sfera celeste e più maligno e dannoso esso era e veniva
degradato da dèmone a demònio.
Nel mondo greco il ‘buon dèmone’ era l’equivalente dell’angelo custode, mentre uno spirito cattivo era definito un ‘cattivo dèmone’. I dèmoni buoni e utili all’uomo vengono da Esiodo chiamati ‘santi dèmoni’. La funzione del dèmone greco nella Bibbia è svolta dall’angelo, termine col quale si indica un messaggero di Dio.
La differenza tra il dèmone del mondo mitologico e l’angelo del mondo ebraico sta nel fatto che i dèmoni sono autonomi, mentre gli angeli dipendono da Dio e in nessun caso nella Bibbia un angelo è diventato un dèmone o tantomeno un demònio.
(A. Maggi)
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