Approfondimenti
per Giuseppe Tucci
Un’irrequietezza mai sazia mi ha condotto al vagabondaggio fin dall'infanzia, in quella mia terra marchigiana conclusa fra il mare volubilissimo e la montagna aspra della Sibilla che commossero, ancor fanciullo, il poeta a me fra tutti carissimo (ndr Leopardi).
…E che pensieri immensi
che dolce sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri
che di qua scopro e che varcare un giorno
io mi pensavo, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio.
Da quando cominciai ad aver uso di ragione, appena mio padre me lo permise - e ricordo ancora l’attesa della prima evasione da solo compiuta - correvo senza meta fra l’intrico dei viottoli che solcano le nostre colline protese, come apparvero al Carducci, a congiungere quel mare e quei monti, quasi che in me si destasse o ravvivasse o raccogliesse la inquietudine nativa ed acuta della mia gente, che congiuntasi poi a zelo apostolico la mosse a valicare gli oceani convogliandola soprattutto verso quelle terre d'Asia dove da Matteo Ricci a Beligatti, nella Cina e nel Tibet moltissimi mi precedettero.
E sempre mi
è restato per questo amore dei luoghi aperti e dei vasti orizzonti un senso d’uggia
e di fastidio per la casa; la quale a me è sempre apparsa come il punto di
convergenza di tutte le limitazioni e fastidi e noie di cui
quell'accidiosissima cosa che diciamo civiltà sempre più ci preme e
intristisce: e più di una volta mi accadde di comprendere e quasi di
giustificare quella subita esplosione di rabbia o di risentimento che non di
rado induce i poco pazienti o i troppo violenti a tagliar corto e ad appiccar
fuoco alla casa nella speranza o nell’illusione di riacquistare una libertà
minacciata o perduta.
Voi vedete che con questa confessione vi ho già detto che se la scienza mi ha sospinto sulle ardue e faticose vie dell’Asia, non c’è tuttavia dubbio che lo sprone della scienza secondava in me nativa volontà d’evasione, un istintivo amore della libertà e dello spazio, il capriccio del fantasticare e del sognare che lo si soddisfa lontano dall’umano consorzio, quando si è soli fra la terra e il cielo, oggi qui domani là in un paesaggio quotidianamente nuovo, tra gente nuova, ma radicata dappertutto su questa terra antica dove anche gli uomini d’oggi sono la creazione inconsapevole di una tradizione millenaria e le vestigie del passato narrano a chi sappia interrogarle, i drammi delle vicende trascorse, i sogni vani o le speranze eterne.
Detto
questo non vi sorprenderà se la congiunta istigazione della scienza e della
libertà mi abbia condotto per quattordici volte sul Tetto del Mondo e sulle
contrade vicine dal Sikkim al Karakorum, dall’Assam al Nepal, dalla giungla
dell’India a Lhasa.
Diciottomila chilometri percorsi a piedi in una delle contrade più fascinose del mondo, dove l’uomo umiliato dalla immensità e dai silenzi in ogni luogo immagina o sospetta presenze divine, invisibili ma certe; e circa otto anni, come dicevo, passati in tenda, senza tener conto delle molte settimane all’addiaccio nella pianura dell’India, nei lenti pellegrinaggi ai luoghi santi della tradizione religiosa, il vagabondaggio nella calura tropicale seguendo il serpeggiare sinuoso degli argini delle risaie, e quando l’aria era troppo cocente, le peregrinazioni notturne al chiaro di luna e la sosta diurna sotto l’ombra degli alberi di mango, in quell’orizzontalità assoluta della terra indiana, levigata come un mare pietrificato, in un combaciamento liscio e perfetto della terra e del cielo.
Vi dico subito che non ho mai amato le spedizioni numerose: uno o due compagni al massimo; un medico ed un fotografo: un fotografo perché tra me e la macchina, anche una macchina così semplice come la fotografica, esiste una incompatibilità assoluta; un medico per il soccorso dei carovanieri e soprattutto perché il medico con i suoi interventi in luoghi deserti di ogni assistenza, attenua le innate diffidenze.
Ma sono
andato anche da solo, anzi proprio in alcune delle più lunghe pericolose
spedizioni, e quando mi avvenne di cader malato nel deserto di More a circa
quattromila e ottocento metri, l’ufficio del medico che non c’era fu
disimpegnato dallo stregone di un accampamento di nomadi, che o per caso o per
perizia o per magico intervento in due giorni mi rimise in sesto.
Per magico intervento, sospetto, perché egli raccoltosi in meditazione m’assicurò che io avevo piantato la tenda sopra la dimora di uno spirito sotterraneo e che pertanto questi corrucciato ed offeso per la violazione involontaria, mi aveva punito con la malattia; perché, secondo i tibetani, le malattie da due cause possono nascere: o da squilibrio degli umori o da interventi di demoni; e in noi in Occidente, perché l’uomo è povero d’idee e sempre sotto nuovi simboli o forme diverse se le presenta, diciamo la stessa cosa investighiamo e verifichiamo le vibrazioni del sottosuolo per accertare se ivi dimorando ne avremo vantaggio: com’è consuetudine dei rabdomanti che dalle oscillazioni del pendolo si fanno certi delle virtù dei luoghi che è la traduzione nel simbolo di una intuizione ancestrale: dove i tibetani dicono spirito noi diciamo forza, diverso nome per lo stesso mistero.
Ma torniamo a noi: quella spedizione durò oltre un anno; percorsi più di quattromila chilometri solo. Voi sapete che a molti la solitudine, a lungo andare, riesce intollerabile e più d’un viaggiatore ho incontrato che s’affrettava a tornare indietro preso quasi da vertigine innanzi a quelle voragini di silenzio e di deserto.
Non a me;
anzi vi dico subito che la solitudine mi è sempre apparsa la migliore
consigliera ed amica: estingue le diffidenze, i sospetti, quello stato di
allarme continuo che, nella vita consociata, per la necessità della difesa e
della vigilanza, rendono l’uomo guardingo: la vita all’aria aperta, fra gli alberi
o le rocce, sotto il sole o lo stupore freddo della luna, restituisce all’uomo
una serenità innocente.
Queste
città rimbombanti di rumori e stridori e scoppiettii, la corsa obbligata fra
mura e rotaie, il necessario incedere a testa china nei lunghi corridoi delle
strade che tagliano il cielo a fette, soprattutto il vivere inconsapevoli della
Grande Madre comune, privano l’uomo di resistenze fisiche necessarie, logorano
i nervi, intossicano lo spirito, ingombrano la mente di cure vane.
Tutto questo non è posa letteraria, molto meno romanticismo. Il romanticismo è sempre una contraddizione fra la realtà e la fantasia; il romantico sogna evasioni immaginarie restando seduto al tavolino: ma io questa vita l’ho vissuta e spero di viverla ancora finché gli anni o il corpo più del mio volere potranno. E poi siamo sinceri: in noi tutti s’asconde, sia pure inconsapevole, l’ansia di un ritorno alle origini.
L’uomo
cominciò con l’essere un nomade; ma questo modo antico depositato in fondo al
nostro subconscio monta spesso alla superficie con i suoi capricci archetipali
e con la bramosia del viaggiare che sboccia in noi con il limen della ragione e
ci accompagna per tutta la vita. E ne giova perché apre la mente.
‘L’uomo che
non viaggia per vedere tutta la terra - diceva un poeta indiano - è come un
ranocchio nella pozzanghera, e l’intelletto si restringe come una goccia di
burro sull’acqua; ma a chi viaggia l’intelletto si allarga come una goccia d’olio
sull’acqua’.
Un altro
più smaliziato aggiungeva: ‘Visitare i pellegrinaggi, aver conoscenze
dappertutto, vedere varie e mirabili cose, allargare l’intelligenza, guadagnare
in eloquenza, questi sono i pregi del viaggiare; il difetto è uno solo ma
grande: di starsene lontani dall’ambrosia delle labbra della ragazza amata’.
Però stiamo attenti: il viaggiare con i mezzi meccanici che traduce in termini moderni il nomadismo ancestrale, se ben considerate, è soltanto illusione di libertà, soggetto com’è al vincolo degli orari, ai posti negli alberghi, ai programmi certi, onde diviene piuttosto prigionia dalla partenza all’arrivo, senza evasone di soste o divari; persino l’automobile ci incatena per l’incanto della corsa, perché occorre sempre uno sforzo per sottrarsi alla malia della velocità ed ubbidire all’invito di una rovina o al richiamo di un orizzonte aperto.
Ma quando
avete una carovana tutto è diverso; vi sentite padroni del mondo: i padri
antichi che vennero forse dall’Asia a popolare la squallida Europa, rivivono in
noi, vi sentite parenti di conquistatori primordiali; oggi qui domani non
sapete dove, dove c’è l’erba ed acqua o dove vi incanta la bellezza dei luoghi,
la maggior delizia per il poeta che in fondo a noi, se non siamo divenuti come
i bruti torpidi e sprovveduti, sempre vigila e sogna.
Soltanto
allora trovate e godete la libertà, non quella di cui tutti oggi parlano,
perché libertà nel vivere consociato vuol dire soltanto piegarsi alle
consuetudini o alla volontà della maggioranza e della forza, o quel consenso
con l’opinione comune che significa di fatto non avere la propria: e non c’è
nessun arzigogolo filosofico che mi abbia mai persuaso del contrario; perché
libertà è quella dell’uomo che parla con le stelle e contempla le montagna che
si aprono al sorriso dell’alba o del tramonto e allora rivelano le loro
resistenze e debolezze, o ascolta quella musica della natura che già commosse i
filosofi della Cina antica.
Rileggiamo insieme una pagina celebre di Chuang tzu:
Il grande respiro della natura è il vento: ora
non soffia: ma quando soffia tutte le cavità gagliardamente risuonano.
Non hai tu mai inteso questo strepito?
Gli erti pendii sulle montagne boscose, le cavità
e i fori degli alberi antichi sono come nasi, mascelle, orecchie, anelli,
mortai, pozze, superfici di lago.
E il vento sibila, stride, geme, soffia,
schiamazza, scoppia; comincia con tono aspro, poi ansima, flebile armonia
quando il vento è debole, ma quando la tempesta scoppia è tutto un
crescendo.
Non hai tu visto come allora tutto è scosso e mosso?
Ed è un motivo ripreso con più sognante dolcezza da un poeta contemporaneo del Pakistan, Mohammad Iqbal, benissimo tradotto dal nostro Bausani (ndr Alessandro, Islamista):
Vengo dal vasto mare, dalle cime de monti,
ma non conosco il luogo lontano dove son nato.
Al triste augello porto messaggi di primavera,
in fondo al suo nido riverso gelsomini d’argento.
Rotolo sopra l’erba, e allo stelo del tulipano m’avvinghio,
e colori e profumi gli spremo nell’intimo seno;
e, a che non si pieghi a mie carezze il suo
gambo,
soavissimo e lieve m’abbraccio al collo del
fiore.
E quando il poeta lamenta il dolor dell’amica Alitando a fiotti, mi mescolo ai suoi melodiosi sospiri!
Ecco perché
i ricordi più belli della mia vita sono quelli delle mie spedizioni, forse
perché alla sorpresa delle scoperte è commisto questo ritorno alle origini: ed
anche il ritrovarsi fra mezzo un’umanità più semplice, più dolce, meno disposta
all’offesa o all’inganno se anche qualche volta, sulle prime, perché sospettosa
dello straniero, dei suoi modi, delle sue intenzioni, delle sue stranezze e
soprattutto della sua abituale mancanza di rispetto per le tradizioni, i culti,
i dei suoi.
Ed è questo
l’ostacolo più difficile da superare, perché mezzi adeguati e cuore saldo hanno
ragione delle montagne, ma la diffidenza dell’uomo, le tortuose ed ascose vie
delle sue idee e fantasie, delle speranze o dei timori suoi, si vincono
soltanto con l’accoglimento cauteloso o l’adattamento ai costumi onde per la
lenta consuetudine nasce poi la reciproca simpatia. Ma vi assicuro che, fatte
le somme, è più facile farsi degli amici colà che fra noi, dove le conoscenze
son molte e le amicizie scarse.
Qualcheduno di voi pensa certo che sto parlando molto di me e delle mie idee; ma voi, invitandomi a dire della vita nomade, dovevate pur attendervi questa mia confessione spontanea e necessaria innanzi a persone che immagino abbiano la mia stessa ansia d’evasione, agli stessi perduti amanti dello spazio e della campagna, di questa nostra campagna raccolta, serena, senza inganni e tranelli, come spesso in Asia, lieta di una sua familiare dolcezza che ti conforta e accoglie come persona amica e nota.
E non potevo non parlarvene perché questo vagabondaggio è il meglio della mia vita, onde a distanza di tempo, raccogliendomi spesso in me stesso, basta che io chiuda gli occhi e subito, fermando la mente ed il ricordo sui luoghi attraversati, mai mi accade che essi non cedano alla evocazione e non mi appaiono innanzi lucidi e precisi; così viva ne restò l’impressione appunto per lo stupore e l’attenzione congiunti e mai stanchi o lenti, e per quell’andare sempre a piedi e mai a cavallo, per modo che la terra incognita a passo mi si discopre e svela come sospirata amante. E credo di parlarvene per questo motivo e familiarità.
Vi ho già detto: otto spedizioni nell’Himalaya; sempre su luoghi nuovi e dove lo stimolo della ricerca e la necessità degli studi mi conducevano, onde i miei itinerari si sono svolti per migliaia di chilometri nel cuore del Tetto del Mondo oltre quelle cime himalayane splendenti nell’azzurro purissimo che apparvero ai poeti dell’India come i denti della Terra protesa a baciare amorosa il cielo che l’ammanta e riscalda.
Non vi
aspetterete da me che io ritorni su questi viaggi e sulle loro vicende; vi
rinuncio, ma a malincuore perché, se la tirannia del tempo e il ritegno che
ogni persona ben nata prova nell’intrattenere altrui sulle cose che egli ama
non me ne facessero divieto, gioia per me sarebbe, prendendo pretesto dall’occasione,
ripercorrere qui con voi i pellegrinaggi lunghi e riviverli nella chiarezza
delle invocazioni.
Ma come
posso ora riassumere le vicende e nominare tutti i luoghi percorsi?
Da Cherrapunj a strapiombo sulla pianura dell’Assam dove cade la maggior precipitazione di pioggia che nel mondo si ricordi, con improvvisi, continui rovesci, una cataratta compatta e pesante contro cui non c’è protezione che valga, a Kohima fra i Naga, nel 1926 ancora cacciatori di teste umane, gelosamente custodite come trofeo nelle capanne, ed ora dopo le vicende dell’ultima guerra, con un balzo improvviso, dalla primordiale crudezza, passati alle schermaglie della politica per darsi una propria autonomia; dalla calura umida delle valli del Sikkim vigilate dallo scintillio del Kanchendzonga e dai suoi seguaci minori, alla serenità dei laghi del Kashmir sulla cui lucentezza immota si rispecchiano i monti come per protezione del luogo incantato, dove, nel conforto di una natura gentile, sembrò acuirsi la vivacissima genialità indiana; o dalla pietraia squallida del Ladak serrato fra le rupi che sembrano commiste d’oro e diamante, all’insidia della giungla nepalese, dove torni alle origini, e nell’indifferenziato erompere delle forze opposte la vita e la morte coesistono e si sovrappongono nell’intrigo luttuoso; e poi i silenzi del Tibet occidentale, quel lago sacro del Manasarovar sul quale si rifrange di lontano la purezza intatta del Kailash, venerato come il centro del mondo, la colonna del cielo, l’inviolata dimora degli dei.
Intorno, sui pianori immensi, a quattromila e cinquecento metri, bande di razziatori e briganti insidiano gli accampamenti di nomadi pingui di mandrie e di greggi, ma colonne di pellegrini convenuti da ogni parte dell’Asia trascinano sulle lande inospiti la propria stanchezza ed esaltano la propria fede desiderosi di lasciarvi il corpo vinto per dissolvere lo spirito nella immota, lucente, spersonificata immortalità del nirvana.
E poi le
grandi città monacali, Saskia, Taschilunpo, Ghiantse ed infine Lhasa stesa a
chiedere la benedizione e la protezione della presenza divina incarnatasi per
trarre gli uomini dall’errore alla verità, nell’austera dimora del Potala sui
cui tetti d’oro il sole sempre brilla e rimbalza.
Poi valicato il fiume Tsanpo che gli indiani, quando scende dopo lunghissimo e tortuoso cammino nella loro terra chiamano Brahmaputra, anzi percorrendolo gran parte su barche fragili fatte con pelle di yak distese su una intelaiatura di rami di selce - e l’acqua da quella superficie trasparente trasuda da tutte le parti - verrà la ricerca nel Tibet centro meridionale delle tombe dei re tibetani e la loro scoperta.
Quando il
Tibet si schiuse ancor più per le vicende politiche che sopravvennero, le
esigenze delle ricerche mi condussero di nuovo nel Nepal: e nel 1952 e nel 1954
percorsi oltre duemila chilometri dai confini tibetani molto oltre quell’Annapurna
e quel Daulaghiri che l’ardimento degli scalatori ha conteso al mistero della
leggenda, fino agli estremi lembi del Tarai, la giungla malsana dove la morte è
sempre in agguato nei miasmi e nell’umidore pernicioso e malato.
In tutte queste peregrinazioni la mia casa è stata la tenda, che per amore della libertà ho sempre preferito all’alloggio delle case ospitali, anche quando i rigori del clima o il pericolo delle bande armate lo rendessero più agevole o sicuro.
Nel Tibet
occidentale mi è occorso nello stesso giorno di avere sbalzi di temperatura
superiori ai sessanta gradi fra il colmo del giorno e della notte, ma non per
questo ho tradito la tenda Moretti per l’ospitalità che l’abate di Toling mi
aveva offerto; e quando cedetti all’invito gentile, come accadde a Yerpa, ad
oriente di Lhasa, e fui accolto nell’appartamento riservato ai grandi dignitari
mal me ne incolse, per quel frastuono di tamburi e di trombe che anche nel
cuore della notte o nel primo incerto lucore dell’alba chiamano a raccolta nel
tempio monaci e novizi, e i tonfi dei tamburi giganteschi rintronano nelle sale
deserte e si rincorrono e si moltiplicano nella valle stretta, sulle cui pareti
s’aprono le celle degli eremiti murati volontariamente nel rifugio
irraggiungibile per ivi meditare e morire.
Né mai spiacevole avventura mi sorprese nella tenda, se non forse nel 1933 quando alle falde del Rotang, il passo, insieme con lo Zoji, tristemente famoso per le valanghe sterminatrici, accampatomi sulle rive del Bias, che lì è ancora poco più che un languido torrente, per improvviso ed imprevisto temporale scatenatosi la notte, risvegliati dal fragore delle acque in tumulto, facemmo appena in tempo a trovar ricovero in una prossima altura, sotto il rovescio pauroso.
E d’altro disagio non mi sovviene se non quello della innocente curiosità della gente che all’arrivo dell’inusitato forestiero, si raccoglie in cerchio intorno e assiste al montaggio delle tende, e vuol vedere come sono fatte, e studia i letti da campo, e si diverte un mondo la mattina, quando ci si lava e ci si insapona, per essi insolito e strano perditempo; e i più coraggiosi e spavaldi entrano addirittura nella tenda, o quando voi volete star soli a fare i vostri comodi essi aprono un lembo della porta e spiano furtivi: non per rubare, ché non sanno e non vogliono, ma per vedere che cosa c’è o come si passa il tempo là dentro, perché i tibetani le tende le hanno anche loro: i ricchi quelle cinesi, colorate, gigantesche, sontuose che ci vuole tutta una carovana per trasportarle, e i poveri od i nomadi, quelle fatte con lana di yak nere con un buco al sommo per lasciar passare il fumo della cucina all’interno; mentre noi la cucina la facciamo, se il tempo lo permette, all’aria aperta, alimentandola con lo sterco delle bestie raccolto lungo i sentieri ed i pianori nella squallida sassolaia del Tetto del Mondo o, nella valle nepalese, con la ramaglia acquosa della giungla, che crepita e cigola e spande un fumo grigiastro e pesante sospeso ed inerte nell’aria immota.
Quella curiosità infantile, e qualche volta per l’insistenza o l’inopportunità molesta, mi ha consigliato sempre a piantare le tende lontano dall’abitato per aver più calma e raccoglimento; ma non c’è poi da farsene meraviglia perché anche in Italia non di rado mi è occorso di vedermi seguito, all’arrivo in qualche paese, da uno stuolo di ragazzi curiosi come se il camminare che non abbia altro scopo che lo starsene soli con la campagna sia stranezza in questi nostri tempi intesi al pratico che pure sempre più si abbandonano al caso e a tutte le lotterie e i totocalci e i quiz e paiono sospendere le fortune dell’uomo al capriccio e non alla volontà precisa e sicura.
Il vagabondaggio fra i monti, la passeggiata solitaria nel folto dei boschi, le camminate lunghe da paese a paese seguendo la traccia dei greggi sembrano a molti poco meno che estro o posa: e ben capisco come una volta scendendo d’inverno da Collarmele a Sulmona, ed era tutto coperto di neve e il cielo grigio e l’aria freddissima, passando vicino ad uno dei paeselli tutti raccolti come per farsi caldo intorno al castello antico, una vecchietta che tornava dal campo con un fascio di legna ci domandasse dove andavamo e lamentasse la nostra miseria che non permettendoci di prendere il treno ci costringeva a quel disagiato cammino.
E giacché sto aprendomi a voi, in questo amichevole colloquio, voglio dirvi che un’altra letizia io trovo in questo vagabondaggio. L’orologio cessa il suo impeto: questo inesorabile distributore e padrone delle nostre ore più non serve; il tempo è scandito con altri ritmi, è segnato dal silenzioso corso del sole e della luna: le albe ed i tramonti sono i limiti necessari ed assoluti.
E diciamo
ancor maggior fascino: la vita nomade è soggetta all’imprevisto; a dire il vero
tutta la vita dell’uomo è sospesa all’imprevisto, per sua fortuna forse, perché
così può evadere dalla noia del consueto e del certo che poco è più morte.
Ma l’imprevisto
della vita consociata è subdolo e malvagio, spesso irreparabile e sdegna e
turba ed inasprisce, perché quasi sempre opera ad arte degli altri, quegli
altri nei quali siamo pure noi, che dovrebbero amarsi o compatirsi, così si
dice, ma in fatta si temono, si scontrano, si offendono, s’hanno in uggia o in
dispregio.
Ma l’imprevisto della vita nomade è l’imprevisto della natura, nella solennità e nella liberalità delle sue vie improvvise, delle sue magnificenze e delle sue ire e l’uomo risvegliatosi nella sua solitudine antica stupisce e trema dinanzi alla Madre terribile e magnanima: lui e la natura, lei la onnipotente, la onnipresente; lui fugacissima ombra.
Si
ridestano allora, irrefrenabili nel cuore, certe indefinite meraviglie e paure
che la coscienza afferra vagamente, tenebra e luce insieme, che conferiscono
agli spazi nei quali erriamo sperduti un’animazione improvvisa: e quelli tutti
si popolano di presenze e potenze invisibili ed audaci, come per ricordare all’uomo
la sua umiltà e la sua fragilità, effimera creatura per incomprensibile destino
o caso venuta alla luce per presto tornare nel grande mistero della vicenda
eterna che sempre mutando a se medesima sopravvive.
E questo è l’ammonimento della metafisica trasparenza delle pitture cinesi dove l’uomo ascolta distaccato o dimenticato il dialogo dei monti e dei boschi, nell’indolenza delle brume come sospiri sospese che, velando, aprono meditazioni luminose.
Eppure
nella prigione di quel piccolo corpo umano è racchiusa, come gemma nelle
scorie, una luce chiara e misteriosa nella quale soltanto la natura inerte e
muta può contemplarsi, ammirarsi ed esaltarsi.
Invitiamo
dunque i giovani alla vita del campeggio all’aria aperta, perché essi
guadagnino quanto perdono nella vita cittadina: non dico in salute ma in
spirito.
Torniamo alla campagna e ritroveremo nella sua chiarità e sincerità l’uomo perduto; quell’uomo che mai dimentica la tradizione in cui fu nutrito perché l’ha quasi raccolta con il sangue dei suoi padri, e ne vive e se ne alimenta, ma si spoglia di tutto il caduco, delle labili architetture nelle quali la storia ed i tempi ci conducono ed imprigionano; riscattiamo quel fanciullo che trepido o stupito può ancora abbandonarsi nel grembo della Gran Madre, di quella Gran Madre Natura che gli Indiani, gran maestri di vita, invocavano ed invocano ancora come la sorgente benigna e tremenda della vita e della morte.
Omaggio a te sostentatrice dell’Universo;
di tutto sei tu il sostegno
e sei pure la cosa sostenuta.
Tu sei la morte e l’energia che a tutto dà vita.
Tu sei l’atomo nella sua elementare natura e
nella sua combinazione.
Tu sei materia sottile e materia estesa.
Tu sei l’esistenza e la non esistenza, spazio e
tempo.
Signora del tempo e fuori del tempo,
Tu sei il grande ostacolo e la grande spinta
La grande forza cosmica che a tutto dà
nascimento.
Tu sei oltre il nostro intelletto,
la matrice dell’Universo, la Grande Legge
la splendida. Essenza di tutte le forze.
Io per conto mio questa vita nomade negli spazi aperti e luminosi tanto l’ho desiderata, sentita, goduta che son sicuro, qualora giungessi ai limiti della vecchiezza e non più mi fosse concesso per la debolezza delle membra di salire le cime, pure sempre consolerebbero i sogni che nella tarda età rallegravano il maggior poeta della Cina:
Sognai che di notte ascendevo le montagne,
Solo, con il mio bastone cavo;
Mille rupi, centinaia di valli,
nel mio viaggio sognato tutte le percorrevo
e le me gambe non si stancavano
e il mio passo era gagliardo come nei giovani
anni.
Può forse accadere che quando la mente va
indietro nel tempo
anche il corpo come prima ritorni?
Può forse accadere, come succede per l’anima e il
corpo,
che il corpo languisca e l’anima sia salda?
Anima e corpo - entrambi vacui;
sonno e veglia - entrambi irreali.
Di giorno le mie gambe barcollano
di notte io cammino sulle montagne.
Come il giorno e la notte sono divise in parti
uguali,
così fra i due io guadagno quanto ho perduto.
(Giuseppe
Tucci)
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