Approfondimento circa
Credo che per ovviare ad ogni umano (o disumano…)
fraintendimento circa la vera comprensione di suddetto ed ogni scritto (a voi proposto) abbisogniamo di un breve Commentario, così come si era soliti un Tempo
di cui ne abbiamo smarrito l’odierno senso disperso in un nuovo ‘brevario’; riponendo
(qual simmetrico ‘papiro’) - il nostro ed altrui Pensiero - al passato...
Ovvero, comporre un più sano ‘presente’ all’afflitta corrotta regalità d’ognuno
- riposta e/o celata - nel vasto scrigno dell’Anima; compreso - e non per
ultimo - il custode Sovrano (…sovente assente alle propria funzione da cui
lo Stato sempre presente…), se del nome ne è degno in codesto regno terreno,
ci lasci il privilegio e il più che fidato onore delle chiavi delle porte d’un
diverso tempo trapassato (come poi leggeremo); giacché sempre la rima si
confonde con la tirannia, e da ogni ugual Sovrano senza più piano o più umile
cantina ne contrasta la prestigiosa soppalcata attica avventura; sino al tetto
di questo et ogni regno terreno. Non meno dell’umile custode d’ogni buona o
cattiva Fede (per chi capace nel difficile Giudizio in dialogo con Dio, e di
conseguenza imporre gloria o martirio in abuso d’uffizio; pur difettandone la
geografia ove il regno compone una diversa immateriale ricchezza…) in
rappresentanza della violata sacralità d’ugual portineria con copia di chiavi
per la corda del paradiso (…sovente per noti motivi amministrativi
l’ascensore non adempie alla funzione richiesta…), troncata alla più veloce
fuga da ogni impero senza sovranità alcuna al ‘pil’ d’una insana pretesa
economica sino alla più nota ‘cupola’... (detto ciò prosegue alla pagina nona
della stessa non meglio specificata dottrina; la nonna dorme si prega di non
disturbare! Grazie!….)
Sono convinto, infatti, di non sbagliare, se modifico un poco la parola di Platone, dicendo che ‘ogni uomo’ e, tanto più, un re ‘ha disposto la propria vita nel modo migliore, se fa dipendere da dio tutto ciò che porta alla felicità e non fa affidamento su altri uomini, dalle cui azioni, buone o malvage, possa essere costretto, lui stesso e i suoi affari a girare a vuoto’.
Se, poi, nessuno consente di parafrasare e di
alterare il testo né di cambiarne una sola parola, ma impone che lo si lasci
permanere immobile, come un tempio antico, ebbene, neppure così potremo
affermare che quel saggio abbia potuto intendere qualcosa di diverso.
Giacché, l’‘uomo in se stesso’ non si riferisce
certo al corpo, né alle ricchezze, né alla nobiltà di nascita o alla gloria
degli antenati; sono queste proprietà personali dell’individuo, ma l’uomo in sé
non è queste cose; è, piuttosto, nell’intelletto e nella saggezza, in una
parola nel dio che è dentro di noi: ciò che, appunto – egli afferma anche
altrove – ‘in noi è la specie più importante di anima’, e che ‘il dio diede a
ciascuno come demone’, che – noi diciamo – ‘abita nella parte superiore del
corpo, e dalla terra ci eleva verso la nostra parentela celeste’.
Da questa, dunque, egli ordina che ogni uomo debba
dipendere, e non da altri uomini; infatti, questi ultimi, quando vogliono
arrecarci danno od ostacolo in altre cose, spesso ci riescono, anzi, ci sono
già stati alcuni che, anche senza volerlo, si sono impadroniti dei nostri beni;
quella parte, invece, è l’unica che non può ricevere impedimento né offesa, giacché
‘non è consentito che ciò che è migliore sia
danneggiato da ciò che è peggiore’; e anche
questo pensiero da quella fonte proviene.
Mi sembra, però, di appesantirvi di citazioni platoniche,
spargendo un po’ di paroline come se si trattasse di sale o di pagliuzze d’oro;
di questi l’uno rende più gradevole il cibo, le altre più fastoso l’aspetto
delle cose; e, in effetti, entrambi i pregi si ritrovano negli scritti di
Platone: essi sono più piacevoli di altri all’ascolto e, in più, mirabili nel
nutrire l’anima in modo piacevole e purificarla.
Sicché non dobbiamo esitare, né temere il biasimo, se qualcuno ci rimprovera di essere insaziabili, e di afferrare di tutto così come fanno nei banchetti i golosi, che afferrano ogni cosa che c’è da mangiare e non resistono a non toccare quello che è posto loro dinanzi. In qualche modo ci sembra che questo capiti anche a noi, quando celebriamo un elogio e, al tempo stesso, delle dottrine, e, prima di aver concluso per bene il discorso precedente, lo interrompiamo a metà, per spiegare citazioni di filosofi; ma a coloro che ci muovono critiche del genere si è replicato già prima, e forse si avrà modo di rispondere loro anche in seguito.
Ma adesso, dando continuità al discorso presente,
ritorniamo di nuovo al principio, come fanno coloro che nelle gare di corsa
prendono lo slancio prima del tempo.
Platone, allora, afferma – si diceva già prima – che l’intelletto e
l’anima sono l’uomo in sé, mentre il corpo e i beni sono proprietà dell’uomo.
Questa distinzione si trova nelle mirabili Leggi.
Come, dunque, se qualcuno, ricapitolando
dall’inizio, dicesse:
‘ha disposto nel modo migliore la propria vita
colui che dall’intelletto e dalla saggezza fa dipendere tutto ciò che porta
alla felicità e non da agenti esterni, dalle cui azioni o vicende, positive o
negative, possa esser costretto a girare a vuoto’,
…non distorce o tradisce il pensiero di Platone, ma
lo interpreta e spiega correttamente, così, anche chi pone ‘dio’ in luogo
dell’espressione ‘se stesso’ non sbaglia.
Se, infatti, quel demone che è in noi, che è per
sua natura impassibile e affine alla divinità, ma molto subisce e tollera a
causa dell’unione con il corpo, sì da dare a molti l’impressione che anch’esso
soffra e vada distrutto, è collocato da Platone a dirigere tutto il corso della
vita – almeno quella di colui che aspira a essere felice –, cosa c’è da aspettarsi
che egli pensi di un intelletto puro, che non si mescola con un corpo terrestre?
Anche questo, certamente, noi diciamo che è dio, ed è a lui che noi esortiamo ad affidare le redini della propria vita ogni uomo, sia egli un privato cittadino o un sovrano – almeno colui che sia veramente degno del titolo, non un bastardo o un impostore, ma uno che comprenda e senta il dio in virtù della sua parentela con lui, che a lui, da persona saggia, consegni l’Impero e gliene ceda la cura.
Sarebbe follia, infatti, e arroganza eccessiva non
obbedire al dio con ogni mezzo e per quanto è possibile, coltivando la virtù;
proprio questo, infatti, si deve pensare che sia al dio particolarmente
gradito. Certamente, neppure bisogna astenersi dal culto conforme alla legge,
né tralasciare di rendere un onore simile all’Essere superiore, ma è nella
virtù che va posta la forma di religiosità più alta. La santità è infatti
figlia della giustizia; e che questa sia propria della parte divina dell’anima
non sfugge a nessuno di quanti si occupano di tali argomenti.
Forse, però, per voi non è facile negare credito a
uomini saggi e divini che affermano molte opinioni, ciascuno per suo conto, ma
il fondamento dei loro discorsi è l’elogio della virtù. Dicono che essa nasce
nell’anima e che la rende felice, regale e – sì per Zeus – idonea a guidare i
governi e gli eserciti, magnanima e ricca davvero, non perché possiede l’oro di
Colofone, né quanto racchiudeva la soglia di pietra del Saettatore prima, in
tempo di pace, quando le condizioni dei Greci erano prospere, né un vestito di
lusso, o pietre preziose dell’India, e molte migliaia di pletri di terra, ma
perché ha ciò che è migliore e più gradito agli dèi di tutte queste cose
insieme, qualcosa che è possibile preservare anche in mezzo a naufragi, in
piazza e fra il popolo, in casa e nei deserti fra i predoni, o al riparo dalla
violenza dei tiranni.
Perché non c’è nulla, in una parola, di più potente, che possa rapirla a viva forza o strapparla a chi ne sia, una sola volta, venuto in possesso: essa, infatti, è davvero, per l’anima, ciò che – credo – è la luce per il sole.
Spesso molti uomini, dopo aver distrutto e
saccheggiato i templi di Helios e le sue offerte, fuggirono, e alcuni ne scontarono
il fio, altri furono lasciati perdere, perché indegni della punizione che porta
alla correzione. Nessuno, però, può privare il sole della sua luce, neppure la
luna, quando, nelle sue congiunzioni, passa sotto il suo disco e spesso,
intercettando i suoi raggi, ci mostra, come si dice, la notte a mezzogiorno.
Neppure il sole stesso si priva della sua luce,
quando illumina la luna che si trova nella posizione opposta e la rende
partecipe della propria natura, né quando colma dello splendore del giorno
questo grande e meraviglioso universo. Allo stesso modo, dunque, neppure un
uomo buono, che estende la virtù a un altro, è mai apparso averne di meno
perché l’ha condivisa; a tal punto si tratta di un possesso divino e splendido
e non è falso il discorso dell’ospite ateniese – chiunque mai sia stato
quell’uomo divino: ‘tutto l’oro che è sotto la terra e sopra la terra non vale
quanto la virtù’.
Con piena fiducia, dunque, chiamiamo pure ricco
colui che la possiede; anzi, io credo, chiamiamolo anche, se vi sembra opportuno,
nobile e re, lui solo, di tutte le cose. Come la nobiltà è migliore rispetto
all’oscurità di nascita, così la virtù è migliore di una disposizione non
totalmente onesta. E che nessuno, considerando l’uso abituale delle parole,
giudichi discutibile o forzato il discorso.
Molti, in effetti, definiscono nobili i discendenti di coloro che sono ricchi da lungo tempo; eppure, non è assurdo che un cuoco o un calzolaio e – sì per Zeus – un vasaio, che abbia accumulato ricchezze grazie alla sua arte o con qualsiasi altro mezzo, non possa esser considerato nobile né ricevere questo titolo dal volgo, e se, invece, suo figlio, ricevuta l’eredità, la trasmette ai suoi discendenti, costoro senz’altro cominciano a darsi grandi arie e a rivaleggiare con i Pelopidi e gli Eraclidi in nobiltà?
Ma neppure un uomo che, nato da avi illustri, sia
precipitato in una condizione di vita opposta, potrebbe a buon diritto
reclamare una parentela con quelli, né potevano essere iscritti fra i Pelopidi
quanti non portavano il segno distintivo di questa stirpe sulle spalle, e in
Beozia, poi, si dice che agli Sparti la zolla di terra che li aveva generati e
nutriti lasciò impressa una lancia, e da quel momento in poi, per molto tempo,
si mantenne questo segno di riconoscimento per la stirpe.
Sulle anime, allora, non crediamo debba restare impresso
alcun segno del genere, che indichi con precisione i nostri padri e confermi la
legittimità della nascita?
Fra i Celti, dicono, c’è un fiume, che è giudice
imparziale dei discendenti, e non si lascia piegare né dalle madri, che lo
supplicano di coprire e nascondere la loro colpa, né dai padri, che temono
dinanzi al suo giudizio per le mogli e per i figli; è un giudice sicuro e
infallibile. Quanto a noi, invece, ci corrompe la ricchezza, ci corrompono la
forza e la bellezza del corpo e il potere degli antenati, che dall’esterno si
proietta come un’ombra e non ci consente di fissare con attenzione lo sguardo
fin dentro l’anima; poiché, tuttavia, è proprio grazie all’anima che ci
distinguiamo dagli altri animali, sarebbe naturale che in base ad essa noi
pronunciassimo giudizi sulla nobiltà.
E mi sembra
che questo sia stato ben compreso dagli antichi, che per natura disponevano di
una sagacia mirabile, e non avevano, come noi, un’attitudine al ragionamento
acquisita, filosofavano senza alcun artificio, in maniera spontanea; e
definirono Eracle figlio di Zeus e stimarono degni della stessa gloria i due
figli di Leda, così come, credo, Minosse il legislatore e Radamanto di Cnosso;
e molti altri ancora proclamarono discendenti di altri dèi, poiché avevano
superato i loro padri naturali. Essi, infatti, guardavano all’anima in sé e
alle sue imprese, e non a ricchezze abissali e imbiancate dal tempo, né a un
potere trasmesso dagli avi e dai trisavoli; eppure, alcuni avevano dei padri
non del tutto oscuri; ma furono considerati figli di dèi per l’eccezionalità
della virtù che essi onorarono e coltivarono. Ciò è evidente a partire da
questo: per altri eroi, non conoscendo quali fossero i loro genitori naturali,
gli antichi ne ricondussero la gloria alla divinità, in omaggio alla loro virtù.
Sapete bene, infatti, che a fare un sovrano non
sono certo una ricchezza antica, né una recente, che affluisce chissà da dove;
né una veste di porpora, né una tiara, uno scettro, un diadema e un trono
antico, né un gran numero di opliti e migliaia di cavalieri, neppure se tutti gli
uomini si riunissero e di comune accordo lo proclamassero loro sovrano; giacché
non è la virtù che questi gli offrono, bensì un potere che non è affatto una fortuna
per chi lo assume ma lo è, molto di più, per chi lo offre. Infatti un uomo del
genere, quando lo riceve, il più delle volte si eleva fino al cielo, senza
distinguersi, in ciò, dal mito e dalla tragedia di Fetonte. E non c’è alcun
bisogno di altri esempi a garanzia delle mie parole, dal momento che la vita
intera è piena di tali sciagure e dei racconti che le tramandano.
Se, dunque, a voi sembra strano che questo titolo bello e caro agli dèi non possano (giustamente) pretendere coloro che regnano, sì, su un territorio vasto e su innumerevoli popoli, ma giudicano dei casi che occorrono con decisioni arbitrarie, senza intelligenza, saggezza, senza le altre virtù che loro si accompagnano, ebbene, sappiate che costoro neppure sono liberi, e non solo se al momento presente non c’è nulla che li ostacoli e sono essi al culmine del loro potere, ma anche se hanno la meglio su avversari che li incalzano, oppure, quando sono essi ad attaccare, si mostrano davvero irresistibili e invincibili.
Se, poi, qualcuno di voi non si fida di queste
parole, non ci mancheranno testimoni illustri, Greci e barbari insieme, che,
dopo aver combattuto e vinto molte e assai dure battaglie, assoggettarono,
certo, dei popoli e li costrinsero a versar loro tributi, ma diventarono
schiavi – e in maniera più vergognosa di quelli – del piacere, del lusso,
dell’intemperanza, dell’arroganza e dell’ingiustizia.
Un uomo di senno non li definirebbe neppure forti,
anche se la grandezza nelle loro imprese fosse evidente e sfolgorante, giacché
forte è soltanto colui che con virtù è coraggioso e magnanimo; colui che,
invece, è sottomesso ai piaceri, incapace di controllare l’ira e appetiti
svariati, e costretto a cedere ai più meschini fra essi, costui non è né forte, né coraggioso in ciò che
costituisce la forza umana; bisogna forse concedergli di vantarsi della propria
forza fisica, alla maniera dei tori, dei leoni o dei leopardi, a meno che non
perda anche questa, e, alla maniera dei fuchi, non si metta a presiedere alle
fatiche altrui, mentre egli stesso non è che un delicato guerriero, vile e senza disciplina.
Un individuo del genere è privo non solo della ricchezza vera, ma anche di quella che riceve molti onori, rispetto e apprezzamento, da cui anime di ogni genere dipendono, e affrontano mille pene e travagli, sopportando ogni giorno, per guadagno, di andare per mare, di trafficare, di depredare o di usurpare le tirannidi; vivono acquistando sempre, in realtà sono sempre nel bisogno, e non intendo del necessario, cibi, bevande e vesti: una ricchezza di questo tipo, infatti, è stata perfettamente ripartita dalla natura e non è possibile che ne restino privi né gli uccelli, né i pesci, né gli animali, e neppure gli uomini moderati.
Ma quanti tormenta una brama e una sciagurata
passione per le ricchezze, è inevitabile che abbiano fame per tutta la vita e
che alla fine se ne vadano in modo molto più miserevole di quelli cui manca il
quotidiano sostentamento; giacché questi ultimi, una volta riempito il ventre,
ottengono una gran pace e un sollievo alla loro sofferenza, mentre per quegli
altri non è piacevole neppure un giorno solo senza guadagno, né la notte,
portando il sonno che scioglie le membra e gli affanni, dona requie alla loro
folle frenesia, ma agita e sconvolge la loro anima, nel loro contare e
ricontare il denaro; non potrebbe liberare questi uomini dall’avidità e dal
biasimo che ne consegue nemmeno il possesso dei tesori di Tantalo e di Mida,
neppure se vi si aggiungesse, in più, la tirannide, il più grande e dannoso dei
demoni.
(Giuliano)
Odiernamente siamo accecati, pur pensando di aver maggior vista e con essa la presunzione della (polifemica) conoscenza, coniata al pari d’una moneta nella volontà dell’immediata comprensione (immediatezza) non più acquisita tramite un Credo scritto nel Fine di ogni probabile Salvezza attraverso ugual medesima Conoscenza; semmai e al contrario, l’effimera volontà di ‘contenere’ come ‘possedere’ (nell’immediatezza sottratta alla vera Comprensione) l’intero mondo evoluto e successivamente ‘calcolato’ sottratto alla relativa ricerca di un più certo dio qual ‘summa’ di quanto, in verità e per il vero, Creato (si badi bene, anche il materialista ateo differente dal laico, vittima o servitore del proprio dio, ugual peccatore servo del diavolo… senza nessun dio eccetto la ‘materia’ la più volgare ‘materia’ spacciata per oro della terra & coniata a forma di moneta…), ricomporre (e giammai ‘scomporre’) l’immateriale Spirito sottratto al karma della materia.
Relativi o assoluti principi di un simmetrico Mondo
come di un Universo costantemente, nonché profondamente meditato, sino agli
abissi d’una profonda Anima inviolata in talune sfere d’ugual immateriale
geografia, affermata da talune Religioni (o filosofiche mistiche teologie), in
costante ‘tellurica vibrazione’ posta nella remota Coscienza d’un Io affine al
Dio (per causa o fine e/o scritto in un fine casuale ciò comporta e comprende
molte Ragioni da intendere) così ‘creato’.
E ciò che scaturisce dall’immediato non simmetrico
all’evoluta Conoscenza - con cui e per cui - intendere quanto Creato, e
dall’uomo propriamente o impropriamente adoperato a suo piacimento sottratto al
principio dell’Essere (o non-Essere) rivolto alla comprensione dell’appartenere
(qual Essere) pur anelando all’Infinito donde si proviene (non-Essere); come millenarie
e secolari simmetriche civiltà hanno affrontato ed ancora affrontato il karma
della propria esistenza ‘caduto’ nell’oblio della Terra.
Sembra che solo l’Infinito interpretato possa scioglierne il difficile nodo di questa Coscienza.
(Giuliano)
[PROSEGUE CON IL DIALOGO COMPLETO]
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