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Circa approfondimenti
su talune...
(breve premessa)
Non
dimenticherò mai la passeggiata che feci una notte a Vienne, dopo aver compiuto
l’esame di una sconosciuta reliquia druidica, a La Rondelle, presso Champigni.
Avevo saputo dell’esistenza di questo cromlech
solo al mio arrivo a Champigni nel pomeriggio, e avevo iniziato a visitare la
curiosità senza calcolare il tempo che mi ci sarebbe voluto per raggiungerlo e
per tornare indietro. Basti dire che ho scoperto il venerabile mucchio di pietre
grigie mentre il sole tramontava e che ho speso le ultime luci della sera a
progettare e disegnare.
Poi mi
voltai verso casa.
La mia
camminata di circa dieci miglia mi aveva stancato, arrivando alla fine di una
lunga giornata di posta, e mi ero azzoppato nell’arrampicarmi su alcune pietre
fino alla reliquia gallica.
Un piccolo
villaggio non era molto lontano, e mi recai lì nella speranza di noleggiare una
carrozza che mi conducesse alla stazione di posta ma fui deluso. Pochi nel
posto parlavano francese, e il prete, quando mi sono rivolto a lui, mi ha
assicurato che credeva che non ci fosse mezzo di trasporto migliore nel posto
di un comune charrue con le sue
solide ruote di legno; né era necessario procurarsi un cavallo da sella. Il
brav’uomo si offrì di ospitarmi per la notte, ma fui costretto a rifiutare,
poiché la mia famiglia intendeva partire presto la mattina seguente.
Allora il
sindaco parlò: ‘Monsieur non potrà mai
tornare indietro…. stanotte, a causa del... del...’ e la sua voce si
abbassò; ‘i loups-garoux’.
‘Dice che deve tornare!’ rispose il prete di
rimando. ‘Ma chi andrà con lui?’.
‘Uno di
noi lo accompagni’, aggiunse il sindaco, ‘non può tornare da solo!’.
‘Allora due devono andare con lui’, disse il prete, ‘e al ritorno potrete prendervi cura l’uno
dell’altro’, concluse il sindaco!.
‘Picou mi ha detto di aver visto il lupo mannaro
solo questa notte’,
disse un contadino; ‘era giù dalla siepe
del suo campo di grano saraceno, e il sole era tramontato, e stava pensando di
tornare a casa, quando udì un fruscio dall’altra parte della siepe. Guardò
oltre, ed ecco il lupo grosso come un vitello contro l’orizzonte, con la lingua
fuori e gli occhi abbaglianti come fuochi di palude’.
Cosa
potrebbero fare due uomini se fossero attaccati da quel demone lupo?
‘Sta tentando la Provvidenza’, disse uno degli anziani
del villaggio; ‘nessun uomo deve
aspettarsi l’aiuto di Dio se si getta volontariamente sulla via del pericolo.
Non è vero, signor curato?. Te l’ho
sentito dire dal pulpito la prima domenica di Quaresima, predicando dal Vangelo’.
‘Questo è vero’, osservarono diversi, scuotendo la testa.
‘La sua lingua penzola e i suoi occhi brillano
come fuochi di palude!’, disse il confidente di Picou.
‘Mon Dieu! se incontrassi il mostro, dovrei scappare’, ha detto un altro.
‘Ti credo proprio Cortrez, posso prevedere quello
che faresti’,
aggiunse il sindaco.
‘Grande come un vitello’, intervenne l’amico di
Picou.
‘Se il loup-garou fosse solo un lupo naturale,
perché allora, vedi’
il sindaco si schiarì la gola ‘vedi, non
dovremmo farci caso; ma, signor curato, è un demone, un demone peggiore, un
demone peggiore dell’uomo, il demone dell’uomo-lupo’.
‘Ma cosa deve fare il giovane signore?’, chiese il prete,
guardando dall’uno all’altro.
‘Non importa’, dissi io, che avevo ascoltato
tranquillamente il loro patois, che capii. ‘Non
importa, tornerò indietro da solo, e se incontro il loup-garou gli taglierò le
orecchie e la coda e le manderò a M. le Maire con i miei complimenti’.
Un sospiro
di sollievo dall’assemblea che ora è fuori pericolo.
‘Il est Anglais’, disse il sindaco
scuotendo la testa, come se intendesse dire che un inglese può affrontare il
diavolo impunemente.
Un
appartamento malinconico era il marais, abbastanza desolato di giorno, ma ora,
nell’oscurità, dieci volte più desolato. Il cielo era perfettamente limpido e
di una tenue sfumatura grigio-azzurra illuminata dalla luna nuova, una curva di
luce che si avvicina al suo letto occidentale. All’orizzonte arrivava una
palude oscurata da pozze d’acqua stagnante, dalla quale le rane continuavano a
cantare un incessante trillo per tutta la notte d’estate.
Erica e
felci ricoprivano il terreno, ma vicino all’acqua crescevano densi ammassi di
canneti e giunchi, tra i quali sospirava stancamente il vento leggero. Qua e là
sorgeva una collinetta sabbiosa, ricoperta di abeti, che sembravano macchie
nere contro il cielo grigio, nessun segno di abitazione da nessuna parte, l’unica
traccia di uomini era la strada bianca e dritta che si estendeva per chilometri
attraverso la palude.
Che questo
quartiere ospitasse lupi non è improbabile, e confesso che mi sono armato di un
robusto bastone al primo gruppo di alberi attraverso il quale la strada si è
tuffata.
Questa è
stata la mia prima introduzione ai lupi mannari, e la circostanza di trovare la
superstizione ancora così prevalente, per prima cosa mi ha dato l’idea di
indagare sulla storia e le abitudini di queste creature mitiche.
Dato che la
violenza - in quanto distinta dal potere, dalla forza, o dall’autorità - ha
sempre bisogno di ‘strumenti’ (come faceva notare Engels molto tempo fa), la rivoluzione tecnologica, una rivoluzione nella
fabbricazione degli strumenti, è stata particolarmente marcata in campo
militare. La sostanza stessa dell’azione violenta è governata dalla categoria
mezzi-fine, la cui caratteristica principale, se applicata agli affari umani, è
sempre stata che il fine corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi che
esso giustifica e che sono necessari per raggiungerlo. Dato che il fine dell’azione
umana, a differenza dei prodotti finali della manifattura, non può mai essere
previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi
politici il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro,
degli obiettivi perseguiti.
Inoltre,
mentre i risultati delle azioni degli uomini vanno oltre il controllo dei
protagonisti, la violenza ha al suo interno un ulteriore elemento di arbitrio;
in nessun caso la fortuna, cioè la buona e la cattiva sorte, svolge un ruolo
più decisivo negli affari umani che sul campo di battaglia, e questa ingerenza
di ciò che è assolutamente imprevisto non scompare quando la si chiama ‘evento
casuale’ e la si trova scientificamente sospetta; né può essere eliminata dalle
simulazioni, dagli scenari, dai modelli teorici e simili.
Non c’è
nessuna certezza in queste cose, neppure la certezza definitiva di una
distruzione reciproca in certe calcolate circostanze.
Il fatto
stesso che coloro che sono impegnati nel perfezionamento dei mezzi di
distruzione hanno alla fine raggiunto un livello di sviluppo tecnico per cui il
loro scopo, vale a dire la guerra, è sul punto di scomparire del tutto per
virtù dei mezzi a disposizione (lo stesso vale per la
degradata condizione ecologica, altro simmetrico aspetto della umana violenza),
è come un ironico richiamo a questa onnipresente imprevedibilità che
incontriamo nel momento in cui ci avviciniamo al regno della violenza.
La ragione principale per cui la guerra c’è ancora non sta né in un segreto desiderio di morte della specie umana, né in un insopprimibile istinto di aggressione, né, infine e più plausibilmente, nei seri pericoli economici e sociali che il disarmo comporta, ma nel semplice fatto che sulla scena politica non è ancora comparso nessun mezzo in grado di sostituire questo arbitro definitivo degli affari internazionali.
Chiunque
abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non
essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli
affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la
violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare
attenzione. (L’ultima edizione dell’ ‘Enciclopedia
delle Scienze Sociali’ non dedica alla violenza neppure una voce.) Questo
dimostra fino a che punto la violenza e la sua arbitrarietà siano state date
per scontate e quindi trascurate; nessuno mette in discussione o sottopone a
verifica ciò che è ovvio per tutti.
Coloro che
non hanno visto altro che violenza negli affari umani, convinti che questi
fossero ‘sempre casuali non seri, non precisi’ (Renan) o che Dio fosse sempre
dalla parte dei battaglioni più grandi, non avevano nient’altro da dire né
sulla violenza né sulla storia.
Chiunque
abbia cercato di dare un qualche senso ai fatti del passato è stato quasi
portato a vedere la violenza come fenomeno marginale. Che si tratti di
Clausewitz, che chiama la guerra ‘la continuazione della politica con altri
mezzi’, o di Engels, che definisce la violenza l’acceleratore dello sviluppo
economico, l’accento è messo sulla continuità economica e politica, o sulla
continuità di un processo che rimane determinato da ciò che ha preceduto l’azione
violenta.
Perciò gli studiosi dei rapporti internazionali hanno sostenuto fino a poco tempo fa che ‘era una massima affermata quella che sosteneva che una risoluzione militare in disaccordo con le più profonde origini culturali del potere nazionale non poteva essere stabile’ o che, per usare le parole di Engels, ‘dovunque la struttura di potere di un paese è in contraddizione con il suo sviluppo economico’ è il suo potere politico con i suoi mezzi di violenza che ne uscirà sconfitto.
Oggi tutte
queste vecchie verità sul rapporto fra guerra e politica e fra violenza e
potere sono diventate inapplicabili. La seconda guerra mondiale non è stata
seguita dalla pace ma da una guerra fredda e dalla costituzione del complesso
militare-industriale-operaio. Parlare della ‘priorità del potenziale dell’industria
bellica come della principale forza strutturante di una società’, affermare che
i ‘sistemi economici, le filosofie politiche e i corpora juris servono ed estendono il sistema di guerra, e non
viceversa’, per concludere che ‘la guerra stessa è il sistema sociale fondamentale,
all’interno del quale gli altri modi secondari dell’organizzazione sociale
entrano in conflitto o congiurano’, ha un senso molto più plausibile delle
formule del diciannovesimo secolo di Engels o di Clausewitz.
Ancora più definitivo di questo semplice capovolgimento proposto dall’anonimo autore del ‘Rapporto dalla Montagna di Ferro’ - invece di essere la guerra ‘un prolungamento della diplomazia’ (o della politica, o del perseguimento di obiettivi economici), è la pace la continuazione della guerra con altri mezzi - è l’effettivo sviluppo delle tecniche militari. Per usare le parole del fisico russo Sacharov,
‘una guerra
termonucleare non può essere considerata una continuazione della politica con
altri mezzi (secondo la formula di Clausewitz). Sarebbe uno strumento di
suicidio universale’.
Il pathos e
l’élan della nuova sinistra (o ugualmente della nuova ‘fratellanza populista’),
la loro credibilità, quale che sia, sono strettamente in rapporto con l’incredibile
sviluppo suicida delle armi moderne; questa è la prima generazione che cresce
all’ombra della bomba atomica. Questi giovani hanno ereditato dalla generazione
dei loro genitori l’esperienza di una massiccia ingerenza della violenza
criminale nella politica; nelle scuole superiori e nelle università hanno
appreso l’esistenza dei campi di concentramento e di sterminio, del genocidio e
della tortura, dell’uccisione in massa dei civili in guerra, senza di che le
operazioni militari moderne non sono più possibili anche se limitate alle armi
convenzionali.
I nuovi
militanti sono stati denunciati come anarchici, nichilisti, fascisti rossi,
nazisti e, in modo senz’altro più appropriato, come ‘luddisti sfasciamacchine’:
e gli studenti hanno risposto servendosi di slogan altrettanto privi di
significato, come ‘polizia di Stato’ o ‘fascismo latente del tardo capitalismo’
e, in modo senz’altro più appropriato, con quello di ‘società di consumo’.
Il loro
comportamento è stato fatto dipendere da tutti i tipi di fattori sociali e
psicologici - da un’eccessiva permissività nella loro educazione in America e
da una reazione a un eccesso di autorità in Germania e Giappone, da una
mancanza di libertà nell’Europa orientale e da troppa libertà in Occidente,
dalla disastrosa mancanza di posti di lavoro per gli studenti di sociologia in
Francia e da una sovrabbondanza di possibilità di carriere in quasi tutti i
campi negli Stati Uniti -, tutte cose che appaiono localmente abbastanza
plausibili ma che sono chiaramente contraddette dal fatto che la rivolta degli
studenti è un fenomeno mondiale.
Un comune denominatore sociale del movimento sembra fuori discussione, ma è anche vero che psicologicamente questa generazione sembra dappertutto caratterizzata dal semplice coraggio, da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento.
Ma queste
qualità non sono cause, e se ci si domanda che cosa abbia effettivamente
provocato questa evoluzione del tutto inaspettata nelle università di tutto il
mondo, sembra assurdo ignorare il più ovvio e forse il più potente dei fattori,
per il quale, per giunta, non esistono precedenti né analogie: il semplice
fatto che il
‘progresso
tecnologico’ porta in molti casi direttamente al disastro; cioè che le scienze
insegnate e apprese da questa generazione, sembrano non soltanto incapaci di
modificare le disastrose conseguenze della propria tecnologia ma hanno anche
raggiunto un livello tale di sviluppo per cui ‘non è rimasta neanche una
maledetta cosa che uno possa fare che non possa venire trasformata in guerra’.
Certamente, niente è più importante per l’integrità delle università - le quali, per usare le parole del senatore Fulbright, hanno tradito la fiducia del pubblico quando sono diventate dipendenti da progetti di ricerca sponsorizzati dal governo - di un divorzio rigorosamente rispettato dalla ricerca orientata a fini militari e da tutte le iniziative collegate; ma sarebbe ingenuo aspettarsi che questo possa cambiare la natura della scienza moderna od ostacolare lo sforzo bellico, ingenuo sarebbe anche negare che la limitazione derivante potrebbe benissimo portare a un abbassamento degli standard delle università.
…In breve,
la proliferazione apparentemente irresistibile delle tecniche e delle macchine,
lungi dal minacciare soltanto certe classi di disoccupazione, minaccia
l'esistenza di intere nazioni, per non dire dell'umanità nel suo complesso.
In fondo è
piuttosto naturale che la nuova generazione debba vivere con una maggiore
consapevolezza della possibilità della fine del mondo rispetto a quelli ‘al di
sopra dei trent’anni’, non perché si tratta di gente più giovane ma perché
questa è stata la loro prima esperienza decisiva del mondo.
Quelli che
per noi sono dei problemi si sono fatti carne e sangue nei giovani.
Se a un
membro di questa generazione si pongono due semplici domande: ‘Come vorresti
che fosse il mondo da qui a cinquant'anni?’ e ‘Come vorresti che fosse la tua
vita da qui a cinquant’anni?’, le risposte vengono molto spesso precedute da
considerazioni come: ‘Ammesso che ci sia ancora un mondo’, e: ‘Ammesso che io
sia ancora vivo’.
Per dirla con George Wald, ‘ci troviamo di fronte a una generazione che non è affatto sicura di avere un futuro; poiché il futuro, come afferma Spender, è ‘come una bomba a orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente’. Alla domanda che abbiamo sentito tanto spesso: Chi sono coloro che fanno parte di questa generazione?, si è tentati di rispondere: Quelli che sentono il ticchettio. E all’altra domanda: Chi sono quelli che lo ignorano in modo assoluto?, la risposta potrebbe benissimo essere: Quelli che non sanno, o che rifiutano di affrontare le cose come esse realmente sono.
(H. Arendt)
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