martedì 28 marzo 2023

APPROFONDIMENTI, ovvero, LA STORIA SI RIPETE?

 








In riferimento 


al Fronte Occidentale 


per le successive 


Pagine di Storia






LA CASA DELLA LIBERTA’

 

 

Dopo cinque giorni di viaggio attraverso gli Urali, la famiglia e i trentanove membri del suo seguito si imbarcarono su un piroscafo a Tjumen, e passarono davanti alla casa di Rasputin a Pokrovskoe.

 

‘Si radunarono sul ponte per vedere la dimora dello starec’.

 

Le ragazze indossavano ancora medaglioni con il suo ritratto. Giunsero a Tobolsk l’indomani sera, e rimasero a bordo mentre veniva preparato per loro il palazzo a due piani del governatore rinominato ‘Casa della Libertà’. La famiglia si sistemò al primo piano, con le ragazze che condividevano una camera d’angolo, i genitori che avevano per sé una camera, uno studio, un salotto e un bagno, e Alessio e l’ex marinaio Nagornyj che dividevano una stanzetta.

 

A Pietrogrado, il 25 ottobre 1917, presero il potere i bolscevichi.

 

‘Una seconda rivoluzione’ scrisse tre giorni dopo l’ex zarina. I tedeschi avanzarono sulla Russia, e Lenin, il leader dei bolscevichi, decise immediatamente di ritirarsi dal conflitto, il che mandò su tutte le furie Nicola:

 

‘Come hanno potuto, quei mascalzoni, avere la sfrontatezza di portare avanti il loro sogno segreto di proporre la pace al nemico?’.

 

Ciò rafforzò la sua convinzione che esistesse una congiura ebraica su scala internazionale.

 

‘Ho iniziato a leggere a voce alta il libro di Nilus sull’Anticristo a cui si sono aggiunti i Protocolli degli ebrei e dei massoni (i Protocolli dei Savi di Sion ): una lettura assai attuale’.




Nello scrivere a sua sorella Ksenija, il 5 novembre, elencava una lista di rivoluzionari con il corrispettivo vero nome ebraico, sostenendo che Lenin fosse in realtà un Cederbljum e Trockij un Bronštejn. Sul secondo aveva ragione, mentre il primo era nato con il cognome Uljanov.

 

‘È peggio e più vergognoso’

 

…pensava

 

‘che al tempo dei Torbidi’.

 

Nel febbraio 1918 il gelo dei bolscevichi calò sulla famiglia. Le amichevoli guardie vennero sostituite da ‘una banda di giovanotti con l’aspetto di canaglie’. Il fragile regime di Lenin stentava a sopravvivere. Il commissario per gli Affari esteri Lev Trockij negoziò la pace, mentre l’esercito del Kaiser penetrava sempre più a fondo in territorio russo.

 

‘La madrepatria socialista è in pericolo’ avvertiva Lenin, e va difesa fino ‘all’ultima goccia di sangue’. I nemici andavano ‘fucilati sul posto’. Più aumentava la crisi del regime, maggiori erano i rischi per i Romanov.

 

Mentre Nicky e Alix corrispondevano con gli amici di Pietrogrado, come Anna, e con i familiari in Crimea, alcune fazioni bolsceviche tentarono di assaltare la Casa della Libertà per ucciderli.

 

Gli ufficiali zaristi escogitarono piani per salvarli. Ciò mise Lenin in allarme.




 Il 20 febbraio il Consiglio dei commissari del popolo, noto con l’acronimo di Sovnarkom e presieduto da Lenin, ordinò che Nicola venisse processato in una sede da stabilire. Filipp Gološčëkin, un ex dentista ora commissario militare del Comitato esecutivo del Soviet degli Urali, suggerì invece che i Romanov venissero trasferiti a Ekaterinburg, negli Urali.

 

Il 1° aprile Jakov Sverdlov, presidente del Comitato esecutivo centrale e segretario del partito, il principale accolito di Lenin, esile, bruno, con folti capelli neri, lenti rotonde e una voce profonda che gli era valsa il soprannome di ‘Tromba’, rafforzò il corpo di guardia a Tobolsk e decise di trasferire la famiglia a Mosca.

 

I bolscevichi avevano appena ristabilito il governo al Cremlino.

 

Lenin aveva intenzione di processare pubblicamente Nicola e Trockij si era proposto come pubblico ministero. Alcuni giorni dopo, Sverdlov mandò Vasilij Jakovlev, figlio di contadini e navigato rivoluzionario, al comando di un Distaccamento a destinazione speciale di centocinquanta Guardie Rosse, con l’incarico di trasferire

 

‘Nicola negli Urali. Riteniamo che per il momento dobbiate farlo stabilire a Ekaterinburg’.




I bolscevichi degli Urali erano in disaccordo quanto i vertici di Mosca su cosa fare del’ex zar, ma ben sapendo che alcuni degli elementi locali volevano ucciderlo immediatamente, Sverdlov specificò:

 

‘Il compito di Jakovlev è condurlo a Ekaterinburg vivo’

 

…per consegnarlo al quarantaduenne Gološčëkin, fidato membro del Comitato centrale nominato da lui e Lenin a capo degli Urali e noto come ‘l’occhio del Cremlino’.

 

Le loro più recondite intenzioni restano tuttora ignote. L’ipotesi più probabile è che volessero trasferire Nicola a Mosca ma, data la crisi, avessero scelto di parcheggiare ‘per il momento’ i Romanov a Ekaterinburg dove, nel dubbio, avrebbero anche potuto farli uccidere.

 

Lenin e Sverdlov non temevano uno spargimento di sangue.

 

Il nichilista Nečaev si era chiesto:

 

‘Che membro della dinastia reale va annientato? L’intera stirpe’.

 

E questa sua osservazione aveva deliziato Lenin:

 

‘È di una semplicità al limite del geniale’.

 

Era convinto che ‘una rivoluzione senza plotoni d’esecuzione è priva di senso’ e in un saggio del 1911 aveva sostenuto che

 

‘se in un paese colto come l’Inghilterra è necessario decapitare un solo criminale incoronato in Russia bisogna decapitare almeno un centinaio di Romanov’.




Lenin e Trockij avevano firmato a Brest-Litovsk un trattato di pace con la Germania che cedeva l’Ucraina e gli Stati del Baltico a dei regimi fantoccio, controllati dal trionfante Kaiser.

 

‘Immagino che vogliano costringermi a siglare l’accordo’

 

…disse Nicola.

 

‘Ma piuttosto mi farei tagliare una mano’.

 

…e Alessandra temeva che,

 

‘lasciato solo, farà qualcosa di stupido come già in passato. Se non ci sono io, possono convincerlo a fare ciò che vogliono’.

 

Alle otto e quaranta di mattina del 30 aprile giunsero nella stazione di Ekaterinburg dove una folla urlante  Impiccateli! li attendeva pronta a linciare lo zar. Jakovlev fece spianare i fucili e si rifiutò di consegnarli. Dopo tre ore di stallo Gološčëkin guidò un corteo per accompagnare il Bagaglio nella sua nuova residenza, un edificio confiscato a un ingegnere del posto, Nikolaj Ipatev, e ora rinominato Casa a destinazione speciale.

 

Intorno all’edificio avevano già costruito un’alta recinzione. All’arrivo, il 17 aprile, avevano dovuto subire una minuziosa perquisizione di tutti i loro bauli.




‘A quel punto sono sbottato’

 

…scrisse Nicola.

 

Rendendosi conto che stavano entrando in una nuova e pericolosa fase, Alessandra disegnò sul davanzale come portafortuna il suo segno talismano, la svastica.

 

Ne avrebbe avuto bisogno.

 

Alla stazione, il principe Valja Dolgorukij venne separato dal gruppo e in seguito arrestato: aveva con sé mappe e contante e chiaramente progettava una fuga della famiglia.

 

Il Soviet della regione degli Urali si rifiuta categoricamente di assumersi la responsabilità del trasferimento di Nicola Romanov alla volta di Mosca e ritiene necessario liquidarlo. Sussiste il grave pericolo che il cittadino Romanov possa cadere nelle mani dei cecoslovacchi e di altri controrivoluzionari. Non possiamo venir meno al nostro dovere nei confronti della Rivoluzione. La famiglia Romanov deve anch’essa venir liquidata.

 

Il 16 luglio, ‘mattinata grigia, più tardi un bel sole’, Alessio era ‘lievemente raffreddato’ scrisse Alessandra, ma ‘siamo tutti usciti per una mezz’ora’. Poi ‘io e Olga abbiamo sistemato i medicinali’, la frase in codice con cui si riferivano ai gioielli, che indica come fossero pronti a un trasferimento improvviso.

 

‘Il Comandante Bue [Jurovskij] entra nelle nostre stanze, almeno ha portato di nuovo delle uova per Baby’.




Jurovskij ordinò dalla rimessa militare un camioncino Fiat per trasportare i cadaveri. Alle sei meno dieci del pomeriggio Filipp Gološčëkin telegrafò a Lenin e Sverdlov a Mosca tramite Grigorij Zinovev, il capo del Soviet di Pietrogrado (perché le comunicazioni erano sempre meno affidabili):

 

‘Fate sapere a Mosca che per ragioni di ordine militare il processo concordato con Filipp [Gološčëkin] non può più essere rinviato. Non possiamo aspettare. Qualora foste di un avviso diverso notificatecelo immediatamente. Gološčëkin’.

 

‘Processo’ era il nome in codice per esecuzione; i destinatari del telegramma dimostravano che l’assassinio era stato discusso ai massimi vertici, e dal suo tono emerge come Mosca avesse lasciato a Ekaterinburg la facoltà di prendere la decisione finale. Jurovskij avrebbe ricordato che un telegramma del Centro aveva dato l’assenso, ma quel messaggio non è mai stato rinvenuto.

 

Gološčëkin e Beloborodov convocarono il terrificante Ermakov e gli annunciarono:

 

‘Siete un uomo fortunato. Siete stato scelto per giustiziarli e seppellirli in modo che nessuno possa mai più trovarne i corpi’.





ZAR ROSSI & BIANCHI

 

 

Quando dissero allo zarevič Alessio che il padre aveva abdicato, il ragazzo chiese: ‘Chi governerà la Russia?’.

 

Marx ha scritto che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. È un’osservazione arguta, ma lontana dalla verità.

 

La storia non si ripete mai, piuttosto prende in prestito, ruba, riecheggia e requisisce ciò che è stato, in modo da creare un ibrido, qualcosa di unico che riunisca in sé gli elementi del passato e del presente. Dal 1917 in poi nessuno zar avrebbe più regnato sulla Russia, ma ognuno dei successori di Nicola, chiamati a governare lo stesso impero con molte delle medesime difficoltà in circostanze del tutto diverse, ha canalizzato, adattato e riplasmato il prestigio dei Romanov allo Zeitgeist del proprio tempo.

 

A Brest-Litovsk, Lenin aveva perso l’Ucraina, il Caucaso e molto altro. E senza l’Ucraina la Russia avrebbe cessato di essere una grande potenza. Alla fine, però, riuscì astutamente a ricomporre l’impero dei Romanov, perdendo solo la Finlandia, la Polonia e gli Stati del Baltico.

 

Lo stesso Stalin, mentre scavalcava i suoi rivali per succedere a Lenin, segretamente riteneva che la Russia avesse bisogno di uno zar: nell’aprile 1926 rifletteva che, malgrado il governo del partito,

 

‘la gente ne capiva ben poco. Per secoli, in Russia, la gente è stata soggetta a uno zar. I russi sono zaristi abituati al fatto che ci sia un capo. E ora dovrebbe essercene uno’.




Studiò in particolare Ivan il Terribile e Pietro il Grande.

 

‘Il popolo ha bisogno di uno zar’

 

disse negli anni Trenta.

 

‘Uno zar da adorare, uno zar per cui vivere e lavorare’.

 

Plasmò con cura la propria immagine per dare vita a un nuovo modello di zar, paterno e misterioso, industriale e urbano, capo di una missione internazionalista e al tempo stesso monarca di tutti i russi. Mentre i tedeschi avanzavano, nel 1941, studiò il 1812 e nel 1942-43 tirò fuori i ranghi, i galloni dorati e le spalline ed esaltò eroi dell’epoca zarista come Kutuzov e Suvorov. Il suo regime di terrore gli permise di attuare radicali inversioni di politica, come il patto con Hitler, di sopravvivere a colossali disastri autoinflitti e di costringere i russi a immani sacrifici.

 

La sua autorità personale, la sua violenza omicida, la sua propaganda marxista-nazionalista, l’industrializzazione sfrenata e l’economia del comando implicavano per lui la possibilità di poter sfruttare risorse che per Nicola sarebbero state inimmaginabili.

 

Stalin fu un tiranno sanguinario e l’esperienza sovietica una tragica distopia per i russi, eppure quell’uomo trascese gli zar, sconfisse la Germania e lasciò la Russia regista dell’Europa orientale e superpotenza nucleare.

 

Si paragonò sempre ai Romanov.




Nel 1945, quando l’ambasciatore americano Averell Harriman si congratulò con lui per la presa di Berlino, lui lo rimbeccò:

 

‘Sì, ma Alessandro I ce l’ha fatta con Parigi’.

 

Nel 1991 lo smembramento dell’Unione Sovietica corrispose anche al disintegrarsi dell’impero dei Romanov che Lenin e Stalin avevano tenuto insieme con astuzia e forza. L’autentica scaltrezza alla base della loro federazione delle quindici repubbliche aveva finito per ritorcersi contro quei marxisti imperialisti, dal momento che non c’era mai stata l’intenzione di rendere quelle repubbliche indipendenti. Ma Boris Eltsin, il nuovo leader della Federazione russa, aveva fatto leva sulle aspirazioni delle repubbliche per scalzare il presidente sovietico Michail Gorbačëv e smantellare l’URSS.

 

Milioni di russi si ritrovarono in nuove nazioni, mentre i sacri territori slavi l’Ucraina o la Crimea  venivano sacrificati sull’altare della Madre Patria. L’Occidente decadente e liberale osava spingere la propria influenza fino alle nuove repubbliche Ucraina, Georgia, Estonia proprio a ridosso dei confini della Russia.

 

Eltsin creò quella che sarebbe stata a eccezione delle elezioni abortite del 1917 la prima vera democrazia russa, con una stampa libera e un mercato libero. Al pari degli zar prima di Paolo I, fu lui stesso a scegliere il suo successore, Vladimir Putin, un ex colonnello del KGB convertitosi alla politica, per proteggere la sua famiglia e la sua eredità.




La prima missione di Putin fu quella di riaffermare la potenza della Russia sia in patria sia all’estero. Nel 2000 la sua guerra cecena fece in modo che la Federazione russa restasse unita. Nel 2008 un conflitto con la Georgia, una delle repubbliche più occidentalizzate, ristabilì l’egemonia russa sul Caucaso. Nel 2014 il tentativo da parte dell’Occidente di attrarre l’Ucraina nel proprio sistema economico ha indotto Putin ad approfittarne, avviando una guerra che gli ha consentito di appoggiare una lotta di secessione in Ucraina orientale e di annettere la Crimea, che egli considerava il ‘nostro Monte del Tempio’.

 

Ha chiamato la sua ideologia ‘democrazia sovrana’, con una chiara enfasi sul concetto di sovranità: il putinismo ha infatti fuso tra loro autoritarismo dei Romanov, sacralità ortodossa, nazionalismo russo, capitalismo clientelare, burocrazia sovietica e istituti della democrazia come elezioni e parlamenti. Se un’ideologia c’è stata, si è caratterizzata per l’acredine e il disprezzo nei confronti dell’America e per la nostalgia dell’Unione Sovietica e dell’impero dei Romanov, ma il suo spirito intrinseco era improntato al culto dell’autorità e al diritto di arricchirsi servendo lo Stato.

 

La missione slavofila di nazione ortodossa, superiore all’Occidente e di carattere eccezionale, ha rimpiazzato quella dell’internazionalismo marxista. Mentre il patriarca ortodosso Kirill ha definito Putin un ‘miracolo di Dio’ per la Russia, il presidente stesso vede nel ‘popolo russo il fulcro di un’opera di civilizzazione unica’.




Pietro il Grande e Stalin sono entrambi visti come gloriosi esempi di governanti russi. La Russia di oggi è erede di entrambi, una fusione di stalinismo imperiale e autoritarismo digitale tipico del XXI secolo, intralciata e corrotta dal suo capriccio personale, dall’atavica assenza di legalità, dalla paralisi economica e dalla corruzione elefantiaca, sebbene ammantata di modernità.

 

Guardando ai quattro secoli di storia russa è curioso notare come in Russia ogni periodo dei Torbidi 1610-13, 1917-18 e 1991-99 sia culminato in una nuova versione della vecchia autocrazia, agevolata dai costumi e dalle tradizioni del predecessore caduto, e giustificata dall’urgente necessità di ristabilire l’ordine, attuare una modernizzazione radicale e riguadagnare alla Russia il suo posto tra le grandi potenze.

 

Putin governa secondo lo schema dei Romanov: con l’autocrazia e il potere nelle mani di una minuscola cricca in cambio della garanzia di prosperità in patria e rispettabilità all’estero. Il conte Valuev, ministro di Alessandro II, ironizzava sul fatto che ci fosse ‘un che di erotico’ nelle avventure nelle lontane terre esotiche, e ciò vale certamente per gli exploit militari russi in Medio Oriente, uno spettacolo in termini televisivi. Ma come gli ultimi zar hanno scoperto a loro spese, la riuscita di questo azzardo dipende dal successo economico.

 

Al contrario degli zar, però, Putin ha dalla sua l’ultima risorsa delle armi nucleari.




Nel suo eccezionalismo russo, nel suo orgoglio imperialista, nel suo conservatorismo in patria, nel suo stile individualistico di governo, nel successo delle sue attività aggressive in ambito internazionale, Putin assomiglia moltissimo allo zar Nicola I con la sua politica di Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità. Nei suoi venticinque anni di regno, anche Nicola dominò ed ebbe la meglio sulle potenze occidentali. Solo la guerra la disfatta in Crimea riuscì a fermarlo. Ma è con il padre di Nicola II, Alessandro III, il quale mise fine alla riforma liberale, che Putin più si identifica.

 

Gli oscuri intrallazzi di potere attorno a un unico uomo nel Cremlino del XXI secolo di certo richiamano quelli che coinvolsero gli imperatori dei Romanov.

 

Putin è senza dubbio un governante abile e opportunista, che ha posto di nuovo la Russia al centro della scena mondiale trascurando al contempo le riforme. La sua autocrazia gli consente, per la sua stessa natura, di prendere quel genere di decisioni rapide che oggi risultano impossibili nelle divise e tremebonde democrazie occidentali.

 

Tale tracotanza gli ha procurato l’ammirazione di quanti, in Occidente, si sentono frustrati dalla debolezza della democrazia: Donald Trump, vincitore nel 2016 delle elezioni presidenziali statunitensi che si autopromuove come una specie di zar americano, ha proclamato il proprio rispetto nei confronti di Putin per gli indiscutibili successi come leader mondiale e autocrate spietato. Entrambi si gloriano della propria concretezza, ma le realtà del potere potrebbero un giorno arrivare a testarne la stima reciproca.




Il suo entourage ha soprannominato Putin lo ‘zar’, ma non è il pensiero dei grandi Romanov a tenerlo sveglio la notte, quanto piuttosto il ricordo di Nicola II. Una sera, nel Palazzo di Novo-Ogarëvo, la sua residenza principale nei pressi di Mosca, Putin ha chiesto ai suoi seguaci chi fossero, a loro avviso, i ‘peggiori traditori’ della Russia. Prima che potessero rispondergli, li ha anticipati: ‘I peggiori criminali della nostra storia sono stati i deboli che hanno gettato il potere alle ortiche Nicola II e Michail Gorbačëv consentendo che se ne impadronissero isterici e folli’.

 

E ha concluso promettendo:

 

‘Io non abdicherò mai’.

 

I Romanov non ci sono più, ma le pastoie dell’autocrazia russa esistono tuttora. 

(S. Montefiore)

 




LA FRECCIA DEL TEMPO? (assenza di Filosofia dal Filosofo di Stato, ovvero nasce la QUARTA MARCIA…)

 

È assolutamente possibile che la Russia possa conoscere di nuovo il feudalesimo, o perfino una società in cui viga la schiavitù, o magari l’emersione di una società comunista o primordiale. Coloro che si burlano di queste ipotesi sono prigionieri della modernità ipnotica. Riconoscendo la reversibilità del tempo storico-politico, siamo approdati a un nuovo punto di vista pluralistico per la scienza politica, e abbiamo raggiunto la prospettiva avanzata necessaria per una nuova costruzione ideologica. 

 

La Quatta Teoria Politica è una teoria non moderna. Parafrasando Bruno Latour ‘Non siamo mai stati contemporanei’. Gli assiomi teorici della modernità sono innocui perché non possono essere realizzati nella realtà. In pratica, si negano da soli in maniera permanente e spettacolare.

 

La Quarta Teoria Politica scarta completamente l’idea dell’irreversibilità della storia. Questa idea era interessante in senso speculativo, come è stato argomentato da Georges Dumézil con il suo anti-evemerismo, nonché da Gilbert Durand.

 

Il tempo è un fenomeno sociale, le sue strutture non dipendono da caratteri oggettivi ma dall’influenza dominante sui paradigmi sociali, perché l’oggetto è assegnato dalla società stessa. Nella società moderna, il tempo è considerato irreversibile, progressivo e unidirezionale, ma ciò non è necessariamente vero all’interno di società che non accettano la modernità. In certe società, in cui manca una rigida visione moderna del tempo, esistono concezioni cicliche e perfino regressive del tempo.

 

Quindi, la storia politica è considerata dalla Quarta Teoria Politica nel contesto della topografia di una pluralità di concezioni del tempo.

 

Ci sono tante concezioni del tempo quante società.

 

La Quarta Teoria Politica non mette solo da parte il progresso e la modernizzazione, comunque. Questa teoria contempla un progresso e una modernizzazione relative, intimamente connesse con certe occasioni semantiche storiche, sociali e politiche del momento presente, come nella teoria occasionalista.

 

La Quarta Teoria Politica adotta un concetto di tempo reversibile correlato alle società. Nel contesto della modernità, ritornare da un momento storico a un momento storico precedente è impossibile, ma è possibile nel contesto della Quarta Teoria Politica.

 

La Quarta Teoria Politica adotta un concetto di tempo reversibile correlato alle società. Nel contesto della modernità, ritornare da un momento storico a un momento storico precedente è impossibile, ma è possibile nel contesto della Quarta Teoria Politica.

 

L’idea di Berdjaev del ‘Nuovo Medioevo’ è fondata, le società possono essere variamente costituite e trasformate. L’esperienza degli anni ’90 lo dimostra bene: il popolo dell’URSS era convinto che il socialismo si sarebbe originato dal capitalismo, e non viceversa, ma negli anni 90 si è verificato il contrario: il capitalismo ha seguito il socialismo.

 

È assolutamente possibile che la Russia possa conoscere di nuovo il feudalesimo, o perfino una società in cui viga la schiavitù, o magari l’emersione di una società comunista o primordiale. Coloro che si burlano di queste ipotesi sono prigionieri della modernità ipnotica. Riconoscendo la reversibilità del tempo storico-politico, siamo approdati a un nuovo punto di vista pluralistico per la scienza politica, e abbiamo raggiunto la prospettiva avanzata necessaria per una nuova costruzione ideologica. 

(A. Dugin)



 

E con quest’ultima affermazione mi congedo dall’eminente filosofo di Stato, Stato abdicato alla tirannia di cui ogni più certo Filosofo ne ha combattuto l’insano morbo!

 

Dato che nelle leggi classiche non esiste una freccia che assegni una direzione al tempo, un’istruzione che dica - da usarsi solo in questo senso e non in quello opposto - viene spontaneo chiedersi la seguente cosa: se le leggi che governano l’esperienza considerano entrambi gli orientamenti temporali in modo simmetrico, perché le esperienze sono tanto sbilanciate in una direzione temporale, perché si verificano sempre in un senso ma non nell’altro?

 

Da dove ha origine la direzionalità del tempo che osserviamo e percepiamo?

 

Se trattiamo di sistemi evolutivi (viventi), possiamo introdurre un terzo concetto: l’indeterminazione termodinamica, collegata al carattere intrinsecamente irreversibile del tempo. L’indeterminazione termodinamica nasce dall’esistenza sperimentale della freccia del tempo e dell’evidenza sperimentale che, durante la misura il tempo scorre.

 

Recentemente gli astrofisici hanno scoperto che la massa di una stella è collegata al tempo di vita della stella stessa. Maggiore è la massa, minore è il tempo di vita. 

(E.Tiezzi, da Giuliano, L’Eretico Viaggio)








venerdì 24 marzo 2023

NABHA, BHA!, NA... ovvero esempi di assoluta cecità

 









In riferimento 


ai Giochi di specchi






Lungo il tratto superiore dell’Indo, nella città di Ali (capoluogo del Tibet occidentale costruito dai cinesi) prendo una camera in albergo, pago la multa di prammatica per essere entrata illegalmente nella ‘Regione Autonoma’ del Tibet… e corro al Fiume. La città, che è chiamata anche Shiquanhe (il nome cinese dell’Indo), e Senge Khabab (il nome tibetano delle sue sorgenti), si trova a cavallo del fiume duecento chilometri più a monte del punto in cui l’ho visto scorrere sotto di me l’ultima volta nel Ladakh orientale. 

 

La frontiera è militarizzata e ciò mi ha impedito di continuare a seguire il corso del fiume, che da un lato è guardato dall’esercito indiano, dall’altro da quello cinese; così, per completare il mio viaggio fino alla sorgente, mi sono dovuta sobbarcare a un giro di circa quattromila chilometri per raggiungere il primo valico di frontiera ufficiale: mi è toccato scendere di nuovo nelle pianure del Punjab, andare a ovest entrando in Pakistan, per poi superare il confine montuoso con la Cina, puntare a est e, su una jeep guidata da un pazzo, attraversare il deserto d’alta quota dell’Aksai Chin (che i cinesi strapparono all’India negli anni Sessanta) e da lì finalmente entrare in Tibet (terra di rapina).

 

Adesso che ho raggiunto la meta, me ne sto confusa sulla riva del Fiume a chiedermi se questo sia davvero il posto giusto.




Dove dovrebbe esserci l’acqua vedo uno stivale blu e una gomma di bicicletta; disseminate qua e là, come fossero fiori, buste di spaghetti cinesi istantanei; ma l’acqua dov’è?

 

La mia carta mostra chiaramente che l’Indo passa dritto in mezzo alla città. Forse, arrivata a Kashgar, ho fatto millequattrocento chilometri… nella direzione sbagliata?

 

Esamino il frasario cinese d’emergenza riportato dalla mia guida e fermo un passante: ‘Shui?’ dico ‘Acqua? Tsangpo? River? Darya?’.

 

L’uomo, un cinese claudicante di mezza età, abbassa gli occhi sul letto del Fiume, poi li alza su di me. Fa un verso, sembra un gatto che tossisce; e un gesto, come se tagliasse qualcosa; quindi spazza l’aria. Poi sfoglia la mia guida e mi fruga nella borsa. La guida non riporta frasi utili alle emergenze fluviali, ma dalla mia borsa salta fuori la torcia tascabile a ricarica cinetica che ho comprato in Ladakh. L’uomo me l’avvicina alla faccia. L’accende e la spegne, e ho la netta impressione, anche se non ne avrò mai la certezza, che inveisca contro di me in cinese. Per fortuna, prima che possa giudicarmi del tutto cretina, capisco cosa vuole dirmi: la risposta alla domanda che gli ho posto è elettricità.




Ventiquattr’ore prima, mentre attraversavo l’Aksai Chin vomitando a più non posso per colpa del mal di montagna, incapace di comunicare con quelli che avevo attorno, mi torturava un pensiero, quasi un presagio, che ho appuntato sul mio taccuino. Adesso vado a rileggermi quelle parole, sgorbi vergati con mano resa incerta dalla mancanza d’ossigeno:

 

‘Che succederebbe se i cinesi costruissero una diga sull’Indo?’.

 

Il cinese claudicante mi fa salire su un taxi e dà rapide istruzioni all’autista. Non ho amici in Tibet e nessuna lingua in comune con questo sconosciuto. Ho deciso di fidarmi di lui non in base a un ragionamento ma seguendo l’istinto... e una stanchezza mortale. Inoltre voglio scoprire cosa ne sia stato dell’Indo. Mi aggrappo allo sbrindellato sedile del taxi e osservo la città che mi passa lentamente e rumorosamente davanti.

 

A dispetto dell’imponente stazione di polizia, dei soldati che fanno il saluto militare, dei palazzi di vetro laminato che si ergono vuoti, opachi di polvere, Senge-Ali è una piccola città che si estende per non più di cinque isolati. La popolazione conta pochissimi tibetani; i cinesi di etnia Han gestiscono i grandi magazzini, marciano avanti e indietro in uniforme verde davanti agli edifici governativi, e truccano clienti dentro i saloni di bellezza illuminati al neon, che fungono anche da postriboli per i militari. Immagino che le città del Raj britannico apparissero tanto anomale quanto questa; l’ordinata semplicità con cui la cultura straniera imprime la sua impronta sul paesaggio ha qualcosa che ricorda un obitorio.




L’asfalto finisce presto, insieme alle sedi della burocrazia, e adesso avanziamo sobbalzando su un sentiero. La città è serrata da scure montagne che tolgono ogni pomposa illusione di modernità. Il loro aspetto impervio è rassicurante, sembrano dire: Gli uomini non sono ancora riusciti a domare questa terra. Guardo dal finestrino il vuoto di quel panorama roccioso mentre il taxista e il mio cicerone improvvisato si consultano. Poi, in lontananza, vedo che la carreggiata è chiusa da una sbarra: un posto di controllo militare. Il taxista si ferma accanto alla barriera e suona il clacson.

 

Sono solo le nove del mattino e il soldato è ancora mezzo addormentato: esce a passi lenti dalla sua baracca, sfregandosi gli occhi; a segni mi fa capire che devo passare infilandomi sotto la sbarra, ma l’auto non può proseguire. Con mia costernazione, il taxi fa marcia indietro e gira. ‘Per favore, aspetti’, dico ‘per favore’. Sai che allegria dover rifare a piedi quella lunga strada deserta. Ma la mia guida si sporge dal finestrino e mi toglie ogni speranza: l’auto non mi aspetterà. Pago la corsa; il taxi scompare in una nuvola di polvere e resto sola.

 

Sola fino a un certo punto: c’è ancora il soldato. Sbadiglia e mi fa cenno di venire avanti.




Non sono del tutto sicura che lo sconosciuto e io ci siamo capiti per davvero. Adesso comunque non ho scelta, ubbidisco al poliziotto e mi avvio per il sentiero. Oltre il posto di controllo, un grappolo di baracche e un’alta recinzione che chiude un complesso di costruzioni. Sento abbaiare un cane e raccolgo una pietra per difendermi. Si apre un cancello e dal complesso esce un grosso camion lercio che trasporta una ventina di operai cinesi. Prende una curva sulla strada davanti a noi e sparisce.

 

Dieci minuti dopo, arrivo alla svolta e ora la vedo.

 

La diga è gigantesca, nuova di zecca.

 

Il suo massiccio arco di cemento si leva dal letto del fiume come un’onda enorme pietrificata a mezz’aria. La fisso incredula, cercando di ricacciare indietro le lacrime. La struttura in sé è completa, gli operai stanno installando gli elementi idroelettrici nell’alveo. Da questo lato della diga c’è qualche pozzanghera, ma nessun flusso d’acqua.

 

L’Indo è stato fermato.




Cammino verso la diga, mi aspetto che da un minuto all’altro mi blocchino e mi perquisiscano; ma nessuno si fa avanti nemmeno per chiedermi dove sto andando. La recinzione lungo la strada è tappezzata di bandiere multicolori: Rete elettrica pubblica della Cina, dicono in cinese e in inglese. Seguendole arrivo a un ponte che scavalca il letto del fiume asciutto e risalgo la riva fin dove sono acquartierati gli operai cinesi. Quando raggiungo la diga vera e propria, faccio una sosta, sono titubante, ma ancora una volta nessuno fa caso a me, per cui decido di proseguire. Ma quando arrivo a metà e mi fermo a guardare l’impianto idroelettrico sottostante, degli uomini con il casco agitano le braccia. Ci fai una foto? mi chiedono a gesti; ma io, per un eccesso di prudenza, abituata a vedere su ogni ponte, in India e in Pakistan, i cartelli che vietano di scattare fotografie, neanche tiro fuori la macchina dalla borsa.

 

Sull’altro versante della diga la strada finisce di colpo, sommersa dall’acqua. Il lago formato dal fiume è immenso, verde e opaco: riempie la valle montana e avrei voglia di urlare protestando contro questa mancanza di umanità, contro le richieste imposte dai bisogni di altri, lontano, in Cina.

 

La diga serve davvero solo per l’elettricità?




O i cinesi, per ovviare alle carenze delle loro falde freatiche, useranno altrove quest’acqua, come fanno i pakistani, per irrigare i campi o per provvedere ai rifornimenti idrici di qualche remota area della loro sterminata repubblica?

 

Resto lì sulla sponda del lago, con l’acqua che mi lambisce i piedi, e dopo un po’ gli operai mi gridano qualcosa e silenziosamente torno indietro.

 

D’ora in poi, viaggiando verso la sorgente del fiume, resterò sempre come sotto shock:

 

l’Indo non c’è più.

 

Quello stesso giorno, un gentile poliziotto tibetano mi spiega:

 

‘Hanno interrotto l’Indo due mesi fa’.

 

Sicché, negli ultimi due mesi, viaggiando verso oriente attraverso il Baltistan, il Kashmir e il Ladakh, non ho risalito il corso dell’Indo, né scritto la sua storia, ma ho avuto a che fare solo con la somma dei suoi affluenti: Gar, Zanskar, Shyok, Shigar.

 

‘E non ci sono state proteste?’




....chiedo.

 

Il poliziotto ride.

 

Nel Ladakh quattrocento buddhisti hanno marciato contro la diga di Basha, che è in costruzione più a valle e sommergerà le incisioni rupestri d’epoca preistorica e buddhista di Chilas. In Pakistan i sindi contestano sistematicamente la costruzione di dighe nel Punjab a opera dell’esercito. Ma qui, nella Regione Autonoma del Tibet, non esistono organismi attraverso i quali gli abitanti possano discutere del modo migliore di difendere il loro paesaggio, le loro usanze, la loro lingua; la gente qui non ha più alcun potere sul suo fiume o sulla sua terra.

 

La mia tristezza è mitigata solo in parte dalla trepidazione che provo per essere giunta alla tappa finale del mio viaggio verso la sorgente di questo fiume un tempo immortale.

 

Torno a Senge-Ali con un gruppo di operai della diga e cerco un mezzo di trasporto per Darchen, un villaggio trecento chilometri più a est, punto di raccolta per i pellegrini che vogliono compiere il periplo della montagna sacra del Kailash. Dallo spartiacque che attraversa questa iconica massa di roccia si dipartono quattro grandi fiumi dell’Asia meridionale: l’Indo, che scorre in direzione nord-ovest, verso il Pakistan; il Sutlej, che va verso ovest entrando in India; il Karnali che va a sud-est, confluendo nel Gange; e il Brahmaputra, che si dirige verso est e arriva nel Bangladesh.




Lì dove scaturiscono questi quattro fiumi, si raccolgono in pellegrinaggio i fedeli di quattro religioni: bon, buddhismo, giainismo e induismo. Il culto dei monti e dei Fiumi è intrinseco alla tradizione folkloristica dell’Asia meridionale, e la montagna da cui traggono origine questi quattro importanti corsi d’acqua è l’epitome di quell’intreccio filosofico.

 

I buddhisti tibetani la chiamano Kangri Rinpoche, Preziosa Montagna Innevata.

 

Nei testi bon le si attribuiscono molti nomi: Fiore d’Acqua, Montagna delle Acque di Mare, Montagna delle Nove Svastiche Sovrapposte.

 

Per gli indù, è la casa di Shiva, selvaggio dio montano, di cui simboleggia il pene; per i seguaci del giainismo, è il luogo dove il fondatore del loro credo ricevette l’illuminazione; per i buddhisti, è l’ombelico dell’universo; e per i fedeli del bon è la dimora della dea celeste Sipaimen.

 

I primi viaggiatori europei, sentendo parlare delle dimensioni mitiche della montagna, la identificarono sia con il Giardino dell’Eden che con il monte Ararat. Oggi per i cinesi e per gli occidentali amanti del trekking questa è una zona di esplorazione che conferisce un crisma particolare a chi la visita, per la durezza del percorso, per la difficoltà di arrivare fin qui, e per la mancanza di ogni comodità.




Questo non è posto di frivoli itinerari occidentali.

 

Gli indù credono che il monte Kailash affondi le radici nel settimo inferno – così c’è scritto nella mia guida – e sbuchi con la vetta nel cielo supremo. Di sicuro è situato in quella che i trekker chiamano una ‘zona morta’, ovvero un luogo di altitudine particolarmente elevata, dove le condizioni meteorologiche mutano in maniera tanto drastica e repentina che ogni anno si contano vittime fra i pellegrini e gli escursionisti che affrontano i tre giorni di viaggio necessari per compiere il periplo del monte a piedi. La sorgente dell’Indo, in ogni caso, si trova più a nord, a diversi giorni di cammino da qui, fra le montagne alle spalle del Kailash.

 

Siamo così in alto – lo spessore dell’altopiano del Tibet è il doppio del resto della crosta terrestre – che il cielo non mi è mai parso tanto ampio, o tanto pieno di nuvole e di luce: il sole sembra splendere da sei punti diversi della volta celeste, come in un quadro di Turner ingrandito a dismisura. Lo scenario ripropone la gamma completa dei paesaggi che ho ammirato lungo il corso dell’Indo: i Fiumi in piena, un deserto sabbioso come quello del Sindh, montagne verdi come quelle del Punjab, vette innevate, tutti nel medesimo colpo d’occhio. Ho l’impressione che ogni cosa già vista mi si dispieghi davanti in un’unica fuga prospettica. I tibetani chiamano la sorgente dell’Indo Senge Khabab, Bocca del Leone, e tutto l’Indo, dalla scaturigine al mare, sembra riassunto in questo luogo desolato.




Arriviamo alla riva di un fiume, ma le ruote della jeep girano a vuoto nel fango e non riusciamo ad attraversarlo. Intanto ha cominciato a piovere. Sulla sponda opposta ci sono due pullman gremiti di tibetani e in mezzo alle acque tumultuose – mi sento male quando lo vedo – c’è un altro pullman pieno di passeggeri che, spaventati, schiacciano il naso contro i finestrini. Un bulldozer dell’esercito cinese è entrato nel fiume per portare loro soccorso. Un soldato lancia una fune all’autista del pullman che si arrampica sull’automezzo, raggiunge il cofano, si immerge nell’acqua rapida e nera e riesce a fissare la fune, legando i due veicoli. Il bulldozer arretra vibrando; il pullman sbanda da un lato; la fune si spezza e cinquanta tibetani vacillano atterriti.

 

Ma c’è un secondo bulldozer e lo osservo sbigottita quando, al segnale di un ufficiale dell’esercito cinese, ignorando i due pullman, attraversa il fiume e raggiunge il punto dove la nostra jeep è impantanata nel fango. I miei compagni di viaggio sono cinesi e l’esercito sta venendo in loro aiuto. Un soldato aggancia con un cavo metallico la nostra jeep al bulldozer, che in un attimo ci rimorchia fin sull’altra sponda del fiume. Questa accorta operazione, me ne accorgo all’arrivo, è stata filmata da un giovane ufficiale, il quale continua a riprendere gli studenti che esultano, i soldati che fanno il saluto militare, l’autista che stringe la mano a tutti. E mentre i tibetani sono ancora prigionieri del loro pullman ondeggiante, la nostra jeep accelera e si allontana.




Il governo cinese, che aprì il Kangri Rinpoche al traffico di pellegrini e turisti sul finire degli anni Ottanta, deve fare soldi a palate a forza di visti e multe. Tuttavia è difficile capire quanto ne beneficino i tibetani. Darchen, quando finalmente ci arriviamo, è gioiosa quanto una riserva indiana negli Stati Uniti, e l’analogia va oltre la semplice presenza di uomini ubriachi con lunghe trecce di capelli neri (i quali, tanto per confondere le idee, portano cappelli da cowboy). Fa male vedere l’eredità tibetana messa in vendita in dollari o in yuan; una lingua che scompare insieme alla cultura; il predominio delle aziende, dei negozi e delle merci cinesi… Se non fosse per questa altitudine estrema, forse anch’io seguirei l’esempio dei nativi e affogherei il mio dolore in una bottiglia di birra di Lhasa.

 

L’uomo che gestisce il posto telefonico mi salva dallo sconforto. Mi distinguo da tutti gli altri suoi clienti perché scoppio a piangere ogni volta che prendo in mano la cornetta. A ripensarci ora è strano, ma quasi non passava giorno, mentre ero in Tibet, in cui non versassi lacrime. Non sono solo lacrime di compassione per un popolo e una cultura che stanno sparendo con la stessa velocità con cui muore il fiume (benché provi anche questo sentimento); e nemmeno lacrime di rabbia al pensiero di un progetto cinese di puro stampo colonialista. Adesso piango per me. Mi sento minacciata (ben più di quanto non mi sia sentita minacciata quando ero vicina ai tribali armati di fucile, ai feudatari stupratori di contadine o a qualsiasi altro protagonista delle storie dell’orrore che ho sentito raccontare lungo il corso inferiore dell’Indo) da qualcosa di non quantificabile e irrazionale: la desolazione del paesaggio. A Kashgar, a Senge-Ali, a Darchen, ogni volta che parlo al telefono con mio marito mi sciolgo in lacrime come un fiume in piena.




Insomma, me ne sto lì a piangere nel locale di Tsegar e i tibetani mi si affollano attorno, aspettando il loro turno per chiamare; Tsegar per tre giorni si limita a guardarmi, restandosene seduto, ingobbito dentro una giacca di cuoio, poi alla fine decide di portarmi a casa sua, che è contigua al negozio, dove c’è un telefono privato al cui numero posso farmi richiamare da mio marito, e una suocera che per fortuna non dice una parola mentre, strascicando i piedi, si muove per la cucina con la sua lunga tunica tibetana, pulendo gli escrementi del cucciolo di casa, una capretta da compagnia, e versandomi una tazza di tè dopo l’altra, che in Tibet ha un gusto burroso e salato. ‘Cosa c’è che non va?’ mi chiede mio marito, dato che alla minima espressione affettuosa scoppio in singhiozzi. In seguito imputerò i pianti all’effetto dell’altitudine. O alla bizzarra struttura della crosta terrestre nel Tibet: l’‘anomalia negativa del campo crostale registrata dal Magsat’, per dirla con le parole dei geologi. 

(A. Albinia) 




Nel suo fondamentale saggio The Climate of History, Dipesh Chakrabarty afferma che, in quest’epoca in cui ‘gli esseri umani sono diventati agenti geologici, modificando i più basilari processi fisici della terra’, gli storici saranno costretti a rivedere buona parte delle loro principali ipotesi e procedure.

 

Vorrei spingermi oltre e aggiungere che l’Antropocene rappresenta una sfida non solo per le arti e le scienze umane, ma anche per il nostro modo abituale di vedere le cose, e per la cultura contemporanea in generale. Non c’è dubbio che tale sfida nasca dalla complessità del linguaggio tecnico che utilizziamo come lente primaria sul cambiamento climatico, ma di certo deriva anche dalle pratiche e dai presupposti che guidano le arti e le scienze umane.

 

 Stabilire come avviene tutto ciò è, credo, della massima urgenza: potrebbe addirittura essere la chiave per capire perché la cultura contemporanea trovi così difficile affrontare la questione del cambiamento climatico. A ben vedere, è forse il problema principale con cui deve vedersela la cultura nella sua accezione più ampia – inutile negare che la crisi climatica sia anche una crisi della cultura, e pertanto dell’immaginazione.




Questa cultura è intimamente legata alla più ampia storia dell’imperialismo e del capitalismo che hanno plasmato il mondo.

 

Ma saperlo non significa ancora conoscere davvero le specifiche modalità in cui tale matrice interagisce con le diverse forme di produzione culturale: poesia, arte, architettura, teatro, narrativa e così via. Nel corso della storia simili espressioni culturali hanno saputo affrontare la guerra, le catastrofi ambientali e molte altre crisi, perché dunque una così strenua resistenza ad affrontare il cambiamento climatico?

 

In un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello dei mari avrà inghiottito le Sundarban e reso inabitabili città come Kolkata, New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà cui si andava incontro?

 

E allora questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità.

(A. Ghosch)




La crisi ecologica in atto è la risultante di una cultura dominante fondata su un sistema antropocentrico che considera gli esseri umani separati e superiori rispetto al vivente non umano. Un pensiero che è espressione di una crisi più profonda del sé, che si percepisce separato dalla Natura e che considera le fonti di vita quali oceani, foreste, animali non umani, come risorse passibili di sfruttamento.

 

Un pensiero che si traduce in politiche ed economie dell’avidità basate su sistemi di estrattivismo, eccessivo individualismo, cultura dello spreco e dell’iper-consumismo.

 

Gli insegnamenti buddhisti, permettendo di superare il concetto dualistico di ‘ambiente dell’uomo’, rappresentano la base dell’ecologia profonda, termine con cui il filosofo norvegese Arne Næss indicava un’ecologia che va oltre il mero contrasto all’inquinamento (definito con il termine di ‘ecologia di superficie’, incentrata su azioni per l’essere umano, posto a sua volta al di sopra e al di fuori della Natura).

 

Per l’ecologia profonda noi siamo Natura: al centro vi è la relazione di reciprocità degli esseri umani con la Terra, di interdipendenza e di sacralità di ogni forma di vita.




Il Buddhismo - nell’inequivocabile indicazione dei Canoni e nei voti dei bodhisattva e in particolare nelle pratiche di Thich Nhat Hanh, Buddhadāsa Bhikkhu e Phra Prayudh Payutto (Dhammapitaka) - è in sintonia con una visione eco-centrica, in una relazione di ‘inter-essere’ con la comunità della vita. Gli stessi esponenti dell’ecologia profonda (oltre Arne Næss anche Gary  Snyder e Johanna Macy) hanno dimostrato grande interesse per la visione buddhista di anicca e di anattā e delle relative implicazioni etiche.

 

La visione bio-centrica dell’ecologia profonda rappresenta, ritengo, la base più solida su cui poggiare i Diritti della Terra. Garantire i Diritti della Terra significa riconoscere a tutte le forme viventi, alla biosfera e ai suoi ecosistemi – alberi, oceani, animali, compresi gli animali non umani, fiumi, laghi, montagne – gli stessi diritti di cui godono gli esseri umani, come il diritto a esistere, mantenersi e rigenerarsi.

 

Come i diritti umani, i Diritti della Terra sono intrinseci e inalienabili: ogni essere assume dignità di persona, con il diritto di vivere secondo la propria natura.




Da questo pensiero possono generare trasformazioni radicali che definiscono nuovi corsi, come è avvenuto nel passaggio dalla schiavitù al riconoscimento dei diritti umani universali. Anche grazie alla spinta dei movimenti dei popoli indigeni, i Diritti della Terra si stanno espandendo in tutto il mondo: a partire dalla Nuova Zelanda dove la legislazione ha riconosciuto al fiume Whanganui, al monte Taranaki e alla Foresta Te Urewera personalità giuridica con relativi diritti, al Bangladesh la cui Alta Corte nel 2019 ha riconosciuto i diritti a tutti i fiumi del Paese (in Bangladesh ci sono più di 200 fiumi) e alla National River Conservation Commission il ruolo di custode legale, all’Argentina dove nel 2020 la municipalità di Rosario ha adottato una decisione a sostegno del riconoscimento dei diritti del fiume Paranà (il secondo fiume più lungo di tutta l’America Latina), all’Ecuador dove dal 2008 i Diritti della Natura fanno parte della Costituzione, al Canada, che riconosce i diritti del fiume (300 km) Muteshekau-shipu, all’India, nel cui Stato di Uttarakhand una corte ha riconosciuto nel 2018 lo status di personalità giuridica all’intero regno animale, alle foreste, ai laghi, alle cascate e dove lo scorso aprile un giudice dell’Alta Corte di Madras ha emesso una sentenza secondo la quale Madre Natura ha gli stessi diritti degli umani, mentre il parlamento spagnolo ha riconosciuto i diritti al Mar Menor, la più grande laguna della penisola iberica.




Si tratta del primo ecosistema cui vengono riconosciuti diritti in Europa. La lista è vasta e in continua evoluzione. Per seguire gli aggiornamenti si può accedere a: ecojurisprudence.org.

 

Sono i Diritti della Natura il punto di arrivo della nuova azione ecologista?

 

Probabilmente no.

 

Tuttavia il loro riconoscimento è importante. È come se fossero uppaya, strumenti utili al raggiungimento di quella conversione ecologica che richiede una radicale trasformazione di pensiero in chiave biocentrica. Riconoscere i diritti dei non umani significa riconoscere la non separazione, significa abbandonare la visione antropocentrica, significa realizzare l’interdipendenza in chiave ecologica. È per questo che UBI è in prima linea, al fianco delle comunità locali e dei popoli indigeni, per promuovere un’ecologia profonda, una visione biocentrica e il riconoscimento dei diritti anche ai non umani. 

(Unione Buddhista Italiana)