In riferimento
Sono quell’uno che vi ha capiti, il primo che ha colto la vostra definizione essenziale: siete gli esseri eterni in attesa della Perfezione, ridotti quotidianamente a semplici elogiatori della rilegatura, costretti dalla frustrazione, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno, del poema, del romanzo, del libro; siete i soli che amate e concepite la Perfezione; gli scrittori tutt’altro, pubblicatori di brutte copie, di libri dettati dalla fretta, dall’opportunismo, dall’euforia. La Perfezione giungerà un giorno o l’altro in un libro, proprio come l’avete giustamente attesa e concepita: fino ad ora non si è vista Perfezione alcuna se non nella grazia e nel potere morale di alcuni uomini e donne che noi tutti arriviamo a conoscere, prima o poi, e che non raggiungeranno mai una notorietà storica né quotidiana.
Eppure
fate bene ad aspettare e sono sicuro che il giorno in cui apparirà in Libro
applaudirete tutti insieme, infinitamente grati.
Noi
scrittori che non abbiamo ancora capito che già da tempo avremmo dovuto
attenerci all’atteggiamento di critici, sapendo quale terribile fatica sia
costruire un libro a regola d’arte e quanto minima sia la probabilità di
riuscirci, non solo soffriamo ma inaridiamo perché non realizziamo il Libro e
in attesa di scriverlo perdiamo la piacevole speranza di poter ritrovare la
Perfezione nei tentativi di altri.
Io non ho trovato una valida espressione della mia teoria artistica. Il mio è un romanzo mancato, però vorrei mi si riconoscesse di essere stato il primo a cercare di utilizzare quel mezzo prodigioso di commozione della coscienza che è il personaggio di un romanzo nella sua reale efficacia e virtù: riuscire a commuovere in modo assoluto la coscienza del lettore, e non occuparla trivialmente in un suo topico particolare, effimero, precario. Mi si riconosca anche che con questo mezzo e con altre idee che vengono formulate via via all’interno del libro rendo più attuabile quella Perfezione in cui sperate e, dandone anche qualche esempio, una dottrina severa dell’arte letteraria.
Se
sbaglio non sarò né il primo né l’ultimo. Potete sentenziarlo a tutto diritto.
Sono
del tutto consapevole che la mia opera vi lascerà in attesa della Perfezione,
forse con maggiore intensità. Se più intensamente, il mio libro sarà servito.
Sono
il qualcuno che ha indovinato che voi sapete cosa non è la Perfezione.
(Nel quale si può osservare che i lettori singhiozzanti sono comunque lettori completi. Ed anche che, quando si inaugura come qui succede la letteratura a singhiozzo, devono leggere di seguito se sono accorti e desiderano continuare ad essere lettori singhiozzanti. Allo stesso modo l’autore scopre con sorpresa che, per quanto letterato singhiozzante, gli piace come agli altri essere letto di seguito, e per persuadere di questo il lettore ha trovato quel valido argomento per cui comunque essi finiscono col leggere tutto ed è ozioso leggere a singhiozzo e spaginare, perché lo mortifica che si possa dire: ‘L’ho letto a spizzichi e bocconi; non male il romanzetto ma alquanto sconnesso, un po’ troppo monco’.)
Non
ti chiedo, lettore singhiozzante — che mai confesserai di leggere dall’inizio
alla fine e che non tralascerai di leggere tutto il mio romanzo, e con ciò la
numerazione delle pagine, per te vana, sarà stata invano da te sovvertita, poiché
nell’opera in cui il lettore verrà finalmente letto, Biografia del lettore, è
risaputo che si narrerà quanto di sconcertante è successo al lettore
singhiozzante con un libro così sconnesso che non ci fu altro rimedio che
leggerlo tutto di seguito per mantenere discontinua la lettura, dal momento che
l’opera singhiozzava fin da prima —, scusa per presentarti un libro discontinuo
che come tale è un’interruzione per te che già ti interrompi da solo, e che ti
senti così a disagio frastornato dalla lettura dei miei prologhi nei quali
l’autore singhiozzante ti faceva immaginare e sognare spaventato di essere
lettore continuo al punto da farti dubitare della tua inveterata identità di io
singhiozzante.
Se dovrai leggere dall’inizio alla fine, come io prevedo, non saltare qua e là nel mio romanzo tanto per vedere: se è pronto, se manca di zucchero o cottura; e faresti meglio a comportarti come il mio padrone di casa che, ‘tanto per assaggiare’, come dice tranquillamente alla cuoca, si mette il tovagliolo al collo e impugna coltello e forchetta. Ti ho reso lettore ininterrotto grazie a un’opera di prefazioni e titoli talmente sciolti che alla fine sei stato impaginato dall’insperata continuità del tuo leggere.
Adesso
non potrò più accontentarti. Ti ho già anticipato tutte le possibilità di
postergare che sono riuscito a combinare: non ho altro prologo fino a quando il
romanzo sarà finito. Quanto mi opprime l’impegno artistico che ho promesso di
portare a termine; non ho ancora né una comprensione reale della teoria del
romanzo, né un’estetica né un progetto per il mio.
Ebbene, per quanto riguarda la sostanza del titolo di questo prologo, ossia il lettore infastidito perché non sa tutto del romanzo:
Non
vi è dubbio che ‘allora il
Viaggiatore pronunciò alcune parole che da questo romanzo non si sentirono e
salutando si allontanò’ (sono soliti
farlo i viaggiatori).
Anche
il mio romanzo salutò, ma rimase molto mortificato perché uno dei suoi
personaggi non gli permise di leggere tutto. Il romanzo è curioso di quanto si
appresta a raccontare, lettore di sé stesso, o meglio della sua narrativa, come
accade con l’Arte (per l’Arte, con l’Arte) che si ama, con ciò che si scrive
senza sapere quello che succederà e quello che si dovrà scrivere più avanti
scoprendo con deferenza e risolvendo ogni situazione, ogni problema di
contenuto o di espressione.
Sono
un autore che perde la fiducia nel proprio romanzo quando impiega troppo a far
proseguire una scena.
È
un romanzo innamorato (e la Eterna non lo è) di se stesso…
(la
Eterna non lo è nemmeno di se stessa: in un disinteresse di sé che, immenso per
bellezza, mi riempie di dolore e di reverenza, lei non ascolta la richiesta di
amarsi che le rivolgo ogni giorno; sarà forse che né lei né io dobbiamo amarci
né amare, o che un errore supremo confonde la visione che ella ha di sé e
dell’altezza alla quale si trova il suo destino? Io non ho dubbi: mi è assai
chiaro, Eterna, che siamo travolti dalla passione; che tu non vuoi che esista,
e che non ammetti nemmeno come possibile in questo periodo della tua vita;
eppure ami l’Arte, senza amare te stessa)
…ed è un romanzo al quale accadono avventure e disavventure, indecisioni d’arte, a cui capita di perdersi in se stesso, di tacere, di ignorare; mentre si racconta avvenimenti ecco che altri lo investono, contiene incidenti e subisce incidenti, come succede adesso ai tram in cui le locandine mostrano passanti che vengono investiti e, allo stesso tempo, con la scocca, distribuiscono all’esterno incidenti e spavento.
È
un romanzo curioso di se stesso, come quei bambini mascherati che gridano ‘Arrivano le mascherine!’ e le seguono
estasiati. Quello che in loro è stato mascherato è che erano come bambini
davanti a un qualsiasi pubblico. L’essere mascherati è in loro un mascheramento
assoluto: quello di essere maschere.
Io,
l’Autore, solo adesso che sono stato pubblicato, divento essenzialmente
pubblico. Cerco molto e molto mi manca da conoscere e da vivere dal momento che
esiste ancora un vivere che vorrei sperimentare per quanto credo di conoscerlo
già: che la finalità dell’Arte è il fine della vita, di ciò che di individuale
c’è in lei: la Tragedia-Idillio che è l’Amore, e questo è fatto di Beltà di
Morte e crea nell’amore tanto la tragedia quanto l’idillio, dal momento che,
lungo il cammino, la certezza della distruzione personale degli amanti (ce
l’hanno anche quelli che non amano, che avendo la morte non hanno Beltà di
vita, aspetto proprio dell’individualità), esalta, crea l’amore come la sua
tragedia.
La morte è solo d’amore; esiste solo la morte dell’altro, il suo occultamento perché per se stessi non esiste occultamento. Ma molto mi è ancora sconosciuto sulla pratica dell’amore, su come si alimenta emozionalmente la sua sete quotidiana, sul suo delicato e inappagabile scambio. E sul suo manifestarsi nell’Arte.
Così,
quindi, a mano a mano che scrivo indago e attendo gli eventi come il lettore. E
quando penso al lettore singhiozzante sento che è mio dovere immaginare che
cosa sia opportuno far sentire al Viaggiatore dopo quanto è appena successo,
per poter dedurre cosa può aver detto e non si è sentito. Quanto può aver detto
è quello che io vi dirò. Non è improbabile che egli abbia sussurrato ‘Sono Viaggiatore in Romanzo, in un racconto in
movimento: non devo, quindi, trattenermi, e in questa scena mi sono già
attardato troppo. Che il lettore mi veda raggiungere un treno o salpare ad ogni
momento; deve vedermi partire tante volte da non poter conoscere il mio esserci
e da temere addirittura che io possa uscire dal romanzo nello slancio di una
partenza’.
In
realtà il Viaggiatore era sul punto di fermarsi quando, avendo intravisto il
lettore, si allontanò. Nell’intervallo, nell’attimo che mancava alla fine, gli
venne voglia di restare ma sopravvenne il mai intempestivo lettore. Credo che
questi si sentirà soddisfatto della frase che propongo, come se l’avessi appena
saputa, mettendola in bocca al Viaggiatore: è tutto quello che ha pensato di
cui qualcosa ha detto e niente si è sentito.
Lascio ultimato questo passaggio come spetta al mio romanzo che ha promesso di raccontare tutto, anche il non saputo, creandolo a volte in lui, e a volte fuori di lui, al cui fine gli ho sistemato le ampie corolle dei miei prologhi. Provo sempre maggior simpatia per questo personaggio il cui arrivo nella narrativa è sempre atteso. Le parole che gli attribuisco dimostrano che prima di tutto egli si preoccupa di rispettare gli impegni che ha preso con me, con il suo ruolo, sacrificando i suoi desideri che sono: che si ascolti tutto quello che dice e gli si dia la possibilità di restare, ed è per la sua grande esperienza nella capacità di restare che mi fu raccomandato, ma per mancanza di personale gli si diede il ruolo di viaggiare sempre.
Sono
state tante le urgenze nel preparare quest’opera che abbiamo dovuto affrettare
perfino i ritardi nel ritornare, nell’arrivare, nel rispondere, nel prendere
una decisione, ritardi che appaiono in tutto il racconto e che tanto lo
affrettano. Così abbiamo dato il ruolo di andarsene sempre nel libro ad un
personaggio che pur di restare resterebbe senza niente. Questa frustrazione
delle vocazioni è tanto vera nella vita che, in un romanzo che non vuole
contenere verità alcuna, il dire questo ci addolora.
Se tuttavia il lettore trova qualche imperfezione nel passaggio emendato, nella presente spiegazione gli chiedo di apprezzare la tranquillità della lettura che fino a questa pagina gli ho assicurato con i miei sforzi culminati nel momento in cui non lasciai entrare nel romanzo il Ragazzo dal lungo bastone, che non si farebbe pregare per distruggere tutto iniziando col lasciar cadere il suo bastone sopra qualche piacevole passaggio di questo racconto e brandendo sempre questa lunga catastrofe in tutto lo spazio scenico tramutato in una ‘pista per dar di bastone’ e abbandonato, al momento della sua apparizione, da tutti i miei personaggi.
Si
butterebbe infine sul divano e osservando le nostre fronti aggrottate direbbe: ‘Mi lascerete, di tanto in tanto, dare qualche
colpo?’, indicando timidamente il bastone vi chiederà scusa per non essere
arrivato prima e il permesso di andarsene, come se altrimenti si sentisse
troppo la sua mancanza, come se avesse molte richieste per andare a infastidire
da un’altra parte; dopo il vostro permesso rimarrà comunque, metterà a posto
qualche quadro storto commosso dal suo bastone. Ve ne andrete, nel frattempo,
perché in genere quando lui se ne va non c’è già più nessuno, chissà per quale
strana coincidenza.
Il
suo esserci contunde e un suo genuino non esserci non si è ancora ottenuto sul
pianeta. Tuttavia il suo non esserci è troppo vicino. Posti nei quali non ci
sia, alquanto richiesti, non si trovano neppure dai rivenditori della sua
assenza e si dubita perfino che possa essere assente. E se ne andrebbe anche
lui con una tale velocità come se un andarsene veloce fosse un andarsene di
più, come se il ridursi del suo esserci stato desse soddisfazione e quel che di
lui rimane si consumasse tanto da esaurirsi molto prima. Il suo ‘lontano’ non
dura niente, e di quanto si sopporta di lui si sta approntando una statistica.
Gli resta da imparare un fermarsi veloce che tutti vorrebbero inventare e
insegnargli; la sua ritirata non è un andarsene subito bensì un andarsene
ancora.
E
si conosce perfino un contuso investito dalla sua assenza.
È la presenza più ingombrante.
Non
condanniamo l’intempestività delle sue partenze improvvise quanto il suo
esserci; siamo indulgenti: è da attribuirsi al fatto che ‘di colpo’ ha pensato
che in paese c’è un muro dal quale ancora non è caduto e si precipita ad arrampicarsi
per poi lasciarsi cadere. Il mondo soffre nell’averlo vicino e non ha
abbastanza spazio in cui buttarlo. Ma lui ha incontrato uno spazio nuovo in
quel sosia del mondo che è la fantasia di un romanzo. Mi vien da pensare che se
lo lasciassi entrare nel mio romanzo si potrebbe sospettare che mi avvalga di
lui per infastidire la lettura di qualche pagina imperfetta. Inoltre so che non
entrando, o lì dove non c’è, lui si comporta bene. Per questo la mia propaganda
dice: ‘unico romanzo dove non si lascia entrare il ragazzo dal lungo
bastone’, ‘è il romanzo del ragazzo tenuto lontano’.
A
un romanzo che abbia voglia di pubblico — il mio si annoia con me, vorrebbe che
arrivassero visite, o uscire a chiacchierare, gli piacerebbe essere letto —
converrebbe iniziare la sua narrativa con un tamponamento o una buona frenata.
A quel punto tutti accorrerebbero in tal numero che già alcuni libri vorrebbero
contare sul pubblico di una frenata comune.
Io da quando sono autore racconto con invidia il pubblico ai tamponamenti. A volte sogno che il romanzo abbia in certi passaggi un tale assembramento di lettori da ostruire l’andamento della trama con il rischio che le disavventure e le catastrofi all’interno del libro appaiano all’inizio, tra gli investiti. Voi capirete che se il romanzo si fosse fermato un istante, proprio in quel punto verrebbe inserito un nuovo prologo al posto del vuoto prodottosi nella narrazione.
E farei quel prologo con dignità, ossia, in modo così ornato almeno da baraonde, fretta, insulti, ordini, sbandamenti, campanelli, freni, guardie, ispettori e dal vigile che viene a leggere l’incidente davanti al finestrino della passeggera che legge il mio romanzo. Insomma, un prologo con un tale insieme di omaggi rivolti all’inverosimiglianza del fatto, che dissimulerei del tutto, come fanno le ‘Compagnie’ che non ammettono mai la verosimiglianza degli incidenti tranviari, l’immobilità che segue la locomozione narrativa. Inoltre, tirerei fuori il braccio dal finestrino del mio romanzo per far segno ai romanzi che lo seguono di non tamponare il mio. Non si intrattenga il lettore con il vigile menzionato; non è il nostro, quello del romanzo è fermo a un altro angolo.
Accomiatiamoci
dal ragazzo aggiungendo che se ha assenza questa è tanto corrosa che il suo primo
arrivare è già frequente, come fosse una Va edizione di presenza.
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