In riferimento
Lungo il tratto superiore dell’Indo, nella città di Ali (capoluogo del Tibet occidentale costruito dai cinesi) prendo una camera in albergo, pago la multa di prammatica per essere entrata illegalmente nella ‘Regione Autonoma’ del Tibet… e corro al Fiume. La città, che è chiamata anche Shiquanhe (il nome cinese dell’Indo), e Senge Khabab (il nome tibetano delle sue sorgenti), si trova a cavallo del fiume duecento chilometri più a monte del punto in cui l’ho visto scorrere sotto di me l’ultima volta nel Ladakh orientale.
La
frontiera è militarizzata e ciò mi ha impedito di continuare a seguire il corso
del fiume, che da un lato è guardato dall’esercito indiano, dall’altro da
quello cinese; così, per completare il mio viaggio fino alla sorgente, mi sono
dovuta sobbarcare a un giro di circa quattromila chilometri per raggiungere il
primo valico di frontiera ufficiale: mi è toccato scendere di nuovo nelle
pianure del Punjab, andare a ovest entrando in Pakistan, per poi superare il
confine montuoso con la Cina, puntare a est e, su una jeep guidata da un pazzo,
attraversare il deserto d’alta quota dell’Aksai Chin (che i cinesi strapparono
all’India negli anni Sessanta) e da lì finalmente entrare in Tibet (terra di
rapina).
Adesso che
ho raggiunto la meta, me ne sto confusa sulla riva del Fiume a chiedermi se
questo sia davvero il posto giusto.
Dove dovrebbe esserci l’acqua vedo uno stivale blu e una gomma di bicicletta; disseminate qua e là, come fossero fiori, buste di spaghetti cinesi istantanei; ma l’acqua dov’è?
La mia
carta mostra chiaramente che l’Indo passa dritto in mezzo alla città. Forse,
arrivata a Kashgar, ho fatto millequattrocento chilometri… nella direzione
sbagliata?
Esamino il
frasario cinese d’emergenza riportato dalla mia guida e fermo un passante: ‘Shui?’
dico ‘Acqua? Tsangpo? River? Darya?’.
L’uomo, un
cinese claudicante di mezza età, abbassa gli occhi sul letto del Fiume, poi li
alza su di me. Fa un verso, sembra un gatto che tossisce; e un gesto, come se
tagliasse qualcosa; quindi spazza l’aria. Poi sfoglia la mia guida e mi fruga
nella borsa. La guida non riporta frasi utili alle emergenze fluviali, ma dalla
mia borsa salta fuori la torcia tascabile a ricarica cinetica che ho comprato
in Ladakh. L’uomo me l’avvicina alla faccia. L’accende e la spegne, e ho la
netta impressione, anche se non ne avrò mai la certezza, che inveisca contro di
me in cinese. Per fortuna, prima che possa giudicarmi del tutto cretina,
capisco cosa vuole dirmi: la risposta alla domanda che gli ho posto è
elettricità.
Ventiquattr’ore prima, mentre attraversavo l’Aksai Chin vomitando a più non posso per colpa del mal di montagna, incapace di comunicare con quelli che avevo attorno, mi torturava un pensiero, quasi un presagio, che ho appuntato sul mio taccuino. Adesso vado a rileggermi quelle parole, sgorbi vergati con mano resa incerta dalla mancanza d’ossigeno:
‘Che
succederebbe se i cinesi costruissero una diga sull’Indo?’.
Il cinese
claudicante mi fa salire su un taxi e dà rapide istruzioni all’autista. Non ho
amici in Tibet e nessuna lingua in comune con questo sconosciuto. Ho deciso di
fidarmi di lui non in base a un ragionamento ma seguendo l’istinto... e una
stanchezza mortale. Inoltre voglio scoprire cosa ne sia stato dell’Indo. Mi
aggrappo allo sbrindellato sedile del taxi e osservo la città che mi passa
lentamente e rumorosamente davanti.
A dispetto
dell’imponente stazione di polizia, dei soldati che fanno il saluto militare,
dei palazzi di vetro laminato che si ergono vuoti, opachi di polvere, Senge-Ali
è una piccola città che si estende per non più di cinque isolati. La
popolazione conta pochissimi tibetani; i cinesi di etnia Han gestiscono i
grandi magazzini, marciano avanti e indietro in uniforme verde davanti agli
edifici governativi, e truccano clienti dentro i saloni di bellezza illuminati
al neon, che fungono anche da postriboli per i militari. Immagino che le città
del Raj britannico apparissero tanto anomale quanto questa; l’ordinata
semplicità con cui la cultura straniera imprime la sua impronta sul paesaggio
ha qualcosa che ricorda un obitorio.
L’asfalto finisce presto, insieme alle sedi della burocrazia, e adesso avanziamo sobbalzando su un sentiero. La città è serrata da scure montagne che tolgono ogni pomposa illusione di modernità. Il loro aspetto impervio è rassicurante, sembrano dire: Gli uomini non sono ancora riusciti a domare questa terra. Guardo dal finestrino il vuoto di quel panorama roccioso mentre il taxista e il mio cicerone improvvisato si consultano. Poi, in lontananza, vedo che la carreggiata è chiusa da una sbarra: un posto di controllo militare. Il taxista si ferma accanto alla barriera e suona il clacson.
Sono solo
le nove del mattino e il soldato è ancora mezzo addormentato: esce a passi
lenti dalla sua baracca, sfregandosi gli occhi; a segni mi fa capire che devo
passare infilandomi sotto la sbarra, ma l’auto non può proseguire. Con mia
costernazione, il taxi fa marcia indietro e gira. ‘Per favore, aspetti’, dico ‘per
favore’. Sai che allegria dover rifare a piedi quella lunga strada deserta. Ma
la mia guida si sporge dal finestrino e mi toglie ogni speranza: l’auto non mi
aspetterà. Pago la corsa; il taxi scompare in una nuvola di polvere e resto
sola.
Sola fino a
un certo punto: c’è ancora il soldato. Sbadiglia e mi fa cenno di venire
avanti.
Non sono del tutto sicura che lo sconosciuto e io ci siamo capiti per davvero. Adesso comunque non ho scelta, ubbidisco al poliziotto e mi avvio per il sentiero. Oltre il posto di controllo, un grappolo di baracche e un’alta recinzione che chiude un complesso di costruzioni. Sento abbaiare un cane e raccolgo una pietra per difendermi. Si apre un cancello e dal complesso esce un grosso camion lercio che trasporta una ventina di operai cinesi. Prende una curva sulla strada davanti a noi e sparisce.
Dieci
minuti dopo, arrivo alla svolta e ora la vedo.
La
diga è gigantesca, nuova di zecca.
Il suo
massiccio arco di cemento si leva dal letto del fiume come un’onda enorme
pietrificata a mezz’aria. La fisso incredula, cercando di ricacciare indietro
le lacrime. La struttura in sé è completa, gli operai stanno installando gli
elementi idroelettrici nell’alveo. Da questo lato della diga c’è qualche
pozzanghera, ma nessun flusso d’acqua.
L’Indo è
stato fermato.
Cammino verso la diga, mi aspetto che da un minuto all’altro mi blocchino e mi perquisiscano; ma nessuno si fa avanti nemmeno per chiedermi dove sto andando. La recinzione lungo la strada è tappezzata di bandiere multicolori: Rete elettrica pubblica della Cina, dicono in cinese e in inglese. Seguendole arrivo a un ponte che scavalca il letto del fiume asciutto e risalgo la riva fin dove sono acquartierati gli operai cinesi. Quando raggiungo la diga vera e propria, faccio una sosta, sono titubante, ma ancora una volta nessuno fa caso a me, per cui decido di proseguire. Ma quando arrivo a metà e mi fermo a guardare l’impianto idroelettrico sottostante, degli uomini con il casco agitano le braccia. Ci fai una foto? mi chiedono a gesti; ma io, per un eccesso di prudenza, abituata a vedere su ogni ponte, in India e in Pakistan, i cartelli che vietano di scattare fotografie, neanche tiro fuori la macchina dalla borsa.
Sull’altro
versante della diga la strada finisce di colpo, sommersa dall’acqua. Il lago
formato dal fiume è immenso, verde e opaco: riempie la valle montana e avrei
voglia di urlare protestando contro questa mancanza di umanità, contro le
richieste imposte dai bisogni di altri, lontano, in Cina.
La diga
serve davvero solo per l’elettricità?
O i cinesi, per ovviare alle carenze delle loro falde freatiche, useranno altrove quest’acqua, come fanno i pakistani, per irrigare i campi o per provvedere ai rifornimenti idrici di qualche remota area della loro sterminata repubblica?
Resto lì
sulla sponda del lago, con l’acqua che mi lambisce i piedi, e dopo un po’ gli
operai mi gridano qualcosa e silenziosamente torno indietro.
D’ora in
poi, viaggiando verso la sorgente del fiume, resterò sempre come sotto shock:
l’Indo non
c’è più.
Quello
stesso giorno, un gentile poliziotto tibetano mi spiega:
‘Hanno
interrotto l’Indo due mesi fa’.
Sicché,
negli ultimi due mesi, viaggiando verso oriente attraverso il Baltistan, il
Kashmir e il Ladakh, non ho risalito il corso dell’Indo, né scritto la sua
storia, ma ho avuto a che fare solo con la somma dei suoi affluenti: Gar,
Zanskar, Shyok, Shigar.
‘E non ci
sono state proteste?’
....chiedo.
Il
poliziotto ride.
Nel Ladakh
quattrocento buddhisti hanno marciato contro la diga di Basha, che è in
costruzione più a valle e sommergerà le incisioni rupestri d’epoca preistorica
e buddhista di Chilas. In Pakistan i sindi contestano sistematicamente la
costruzione di dighe nel Punjab a opera dell’esercito. Ma qui, nella Regione
Autonoma del Tibet, non esistono organismi attraverso i quali gli abitanti
possano discutere del modo migliore di difendere il loro paesaggio, le loro
usanze, la loro lingua; la gente qui non ha più alcun potere sul suo fiume o
sulla sua terra.
La mia
tristezza è mitigata solo in parte dalla trepidazione che provo per essere
giunta alla tappa finale del mio viaggio verso la sorgente di questo fiume un
tempo immortale.
Torno a
Senge-Ali con un gruppo di operai della diga e cerco un mezzo di trasporto per
Darchen, un villaggio trecento chilometri più a est, punto di raccolta per i
pellegrini che vogliono compiere il periplo della montagna sacra del Kailash.
Dallo spartiacque che attraversa questa iconica massa di roccia si dipartono
quattro grandi fiumi dell’Asia meridionale: l’Indo, che scorre in direzione
nord-ovest, verso il Pakistan; il Sutlej, che va verso ovest entrando in India;
il Karnali che va a sud-est, confluendo nel Gange; e il Brahmaputra, che si
dirige verso est e arriva nel Bangladesh.
Lì dove scaturiscono questi quattro fiumi, si raccolgono in pellegrinaggio i fedeli di quattro religioni: bon, buddhismo, giainismo e induismo. Il culto dei monti e dei Fiumi è intrinseco alla tradizione folkloristica dell’Asia meridionale, e la montagna da cui traggono origine questi quattro importanti corsi d’acqua è l’epitome di quell’intreccio filosofico.
I buddhisti
tibetani la chiamano Kangri Rinpoche, Preziosa Montagna Innevata.
Nei testi
bon le si attribuiscono molti nomi: Fiore d’Acqua, Montagna delle Acque di
Mare, Montagna delle Nove Svastiche Sovrapposte.
Per gli
indù, è la casa di Shiva, selvaggio dio montano, di cui simboleggia il pene;
per i seguaci del giainismo, è il luogo dove il fondatore del loro credo
ricevette l’illuminazione; per i buddhisti, è l’ombelico dell’universo; e per i
fedeli del bon è la dimora della dea celeste Sipaimen.
I primi
viaggiatori europei, sentendo parlare delle dimensioni mitiche della montagna,
la identificarono sia con il Giardino dell’Eden che con il monte Ararat. Oggi
per i cinesi e per gli occidentali amanti del trekking questa è una zona di
esplorazione che conferisce un crisma particolare a chi la visita, per la
durezza del percorso, per la difficoltà di arrivare fin qui, e per la mancanza
di ogni comodità.
Questo non è posto di frivoli itinerari occidentali.
Gli indù
credono che il monte Kailash affondi le radici nel settimo inferno –
così c’è scritto nella mia guida – e sbuchi con la vetta nel cielo supremo. Di
sicuro è situato in quella che i trekker chiamano una ‘zona morta’, ovvero un
luogo di altitudine particolarmente elevata, dove le condizioni meteorologiche
mutano in maniera tanto drastica e repentina che ogni anno si contano vittime
fra i pellegrini e gli escursionisti che affrontano i tre giorni di viaggio
necessari per compiere il periplo del monte a piedi. La sorgente dell’Indo, in
ogni caso, si trova più a nord, a diversi giorni di cammino da qui, fra le
montagne alle spalle del Kailash.
Siamo così
in alto – lo spessore dell’altopiano del Tibet è il doppio del resto della
crosta terrestre – che il cielo non mi è mai parso tanto ampio, o tanto pieno
di nuvole e di luce: il sole sembra splendere da sei punti diversi della volta
celeste, come in un quadro di Turner ingrandito a dismisura. Lo scenario
ripropone la gamma completa dei paesaggi che ho ammirato lungo il corso
dell’Indo: i Fiumi in piena, un deserto sabbioso come quello del Sindh,
montagne verdi come quelle del Punjab, vette innevate, tutti nel medesimo colpo
d’occhio. Ho l’impressione che ogni cosa già vista mi si dispieghi davanti in
un’unica fuga prospettica. I tibetani chiamano la sorgente dell’Indo Senge
Khabab, Bocca del Leone, e tutto l’Indo, dalla scaturigine al mare, sembra
riassunto in questo luogo desolato.
Arriviamo alla riva di un fiume, ma le ruote della jeep girano a vuoto nel fango e non riusciamo ad attraversarlo. Intanto ha cominciato a piovere. Sulla sponda opposta ci sono due pullman gremiti di tibetani e in mezzo alle acque tumultuose – mi sento male quando lo vedo – c’è un altro pullman pieno di passeggeri che, spaventati, schiacciano il naso contro i finestrini. Un bulldozer dell’esercito cinese è entrato nel fiume per portare loro soccorso. Un soldato lancia una fune all’autista del pullman che si arrampica sull’automezzo, raggiunge il cofano, si immerge nell’acqua rapida e nera e riesce a fissare la fune, legando i due veicoli. Il bulldozer arretra vibrando; il pullman sbanda da un lato; la fune si spezza e cinquanta tibetani vacillano atterriti.
Ma c’è un
secondo bulldozer e lo osservo sbigottita quando, al segnale di un ufficiale
dell’esercito cinese, ignorando i due pullman, attraversa il fiume e raggiunge
il punto dove la nostra jeep è impantanata nel fango. I miei compagni di
viaggio sono cinesi e l’esercito sta venendo in loro aiuto. Un soldato aggancia
con un cavo metallico la nostra jeep al bulldozer, che in un attimo ci
rimorchia fin sull’altra sponda del fiume. Questa accorta operazione, me ne
accorgo all’arrivo, è stata filmata da un giovane ufficiale, il quale continua
a riprendere gli studenti che esultano, i soldati che fanno il saluto militare,
l’autista che stringe la mano a tutti. E mentre i tibetani sono ancora
prigionieri del loro pullman ondeggiante, la nostra jeep accelera e si allontana.
Il governo cinese, che aprì il Kangri Rinpoche al traffico di pellegrini e turisti sul finire degli anni Ottanta, deve fare soldi a palate a forza di visti e multe. Tuttavia è difficile capire quanto ne beneficino i tibetani. Darchen, quando finalmente ci arriviamo, è gioiosa quanto una riserva indiana negli Stati Uniti, e l’analogia va oltre la semplice presenza di uomini ubriachi con lunghe trecce di capelli neri (i quali, tanto per confondere le idee, portano cappelli da cowboy). Fa male vedere l’eredità tibetana messa in vendita in dollari o in yuan; una lingua che scompare insieme alla cultura; il predominio delle aziende, dei negozi e delle merci cinesi… Se non fosse per questa altitudine estrema, forse anch’io seguirei l’esempio dei nativi e affogherei il mio dolore in una bottiglia di birra di Lhasa.
L’uomo che
gestisce il posto telefonico mi salva dallo sconforto. Mi distinguo da tutti
gli altri suoi clienti perché scoppio a piangere ogni volta che prendo in mano
la cornetta. A ripensarci ora è strano, ma quasi non passava giorno, mentre ero
in Tibet, in cui non versassi lacrime. Non sono solo lacrime di compassione per
un popolo e una cultura che stanno sparendo con la stessa velocità con cui
muore il fiume (benché provi anche questo sentimento); e nemmeno lacrime di
rabbia al pensiero di un progetto cinese di puro stampo colonialista. Adesso
piango per me. Mi sento minacciata (ben più di quanto non mi sia sentita
minacciata quando ero vicina ai tribali armati di fucile, ai feudatari stupratori
di contadine o a qualsiasi altro protagonista delle storie dell’orrore che ho
sentito raccontare lungo il corso inferiore dell’Indo) da qualcosa di non
quantificabile e irrazionale: la desolazione del paesaggio. A Kashgar, a
Senge-Ali, a Darchen, ogni volta che parlo al telefono con mio marito mi
sciolgo in lacrime come un fiume in piena.
Insomma, me ne sto lì a piangere nel locale di Tsegar e i tibetani mi si affollano attorno, aspettando il loro turno per chiamare; Tsegar per tre giorni si limita a guardarmi, restandosene seduto, ingobbito dentro una giacca di cuoio, poi alla fine decide di portarmi a casa sua, che è contigua al negozio, dove c’è un telefono privato al cui numero posso farmi richiamare da mio marito, e una suocera che per fortuna non dice una parola mentre, strascicando i piedi, si muove per la cucina con la sua lunga tunica tibetana, pulendo gli escrementi del cucciolo di casa, una capretta da compagnia, e versandomi una tazza di tè dopo l’altra, che in Tibet ha un gusto burroso e salato. ‘Cosa c’è che non va?’ mi chiede mio marito, dato che alla minima espressione affettuosa scoppio in singhiozzi. In seguito imputerò i pianti all’effetto dell’altitudine. O alla bizzarra struttura della crosta terrestre nel Tibet: l’‘anomalia negativa del campo crostale registrata dal Magsat’, per dirla con le parole dei geologi.
(A. Albinia)
Nel suo fondamentale saggio The Climate of History, Dipesh Chakrabarty afferma che, in quest’epoca in cui ‘gli esseri umani sono diventati agenti geologici, modificando i più basilari processi fisici della terra’, gli storici saranno costretti a rivedere buona parte delle loro principali ipotesi e procedure.
Vorrei
spingermi oltre e aggiungere che l’Antropocene rappresenta una sfida non solo
per le arti e le scienze umane, ma anche per il nostro modo abituale di vedere
le cose, e per la cultura contemporanea in generale. Non c’è dubbio che tale
sfida nasca dalla complessità del linguaggio tecnico che utilizziamo come lente
primaria sul cambiamento climatico, ma di certo deriva anche dalle pratiche e
dai presupposti che guidano le arti e le scienze umane.
Stabilire come avviene tutto ciò è, credo,
della massima urgenza: potrebbe addirittura essere la chiave per capire perché
la cultura contemporanea trovi così difficile affrontare la questione del
cambiamento climatico. A ben vedere, è forse il problema principale con cui
deve vedersela la cultura nella sua accezione più ampia – inutile negare che la
crisi climatica sia anche una crisi della cultura, e pertanto
dell’immaginazione.
Questa cultura è intimamente legata alla più ampia storia dell’imperialismo e del capitalismo che hanno plasmato il mondo.
Ma
saperlo non significa ancora conoscere davvero le specifiche modalità in cui
tale matrice interagisce con le diverse forme di produzione culturale: poesia,
arte, architettura, teatro, narrativa e così via. Nel corso della storia simili
espressioni culturali hanno saputo affrontare la guerra, le catastrofi
ambientali e molte altre crisi, perché dunque una così strenua resistenza ad
affrontare il cambiamento climatico?
In
un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello
dei mari avrà inghiottito le Sundarban e reso inabitabili città come Kolkata,
New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno
all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e
segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non
trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella
nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da
nascondere la realtà cui si andava incontro?
E allora questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità.
(A. Ghosch)
La crisi ecologica in atto è la risultante di una cultura dominante fondata su un sistema antropocentrico che considera gli esseri umani separati e superiori rispetto al vivente non umano. Un pensiero che è espressione di una crisi più profonda del sé, che si percepisce separato dalla Natura e che considera le fonti di vita quali oceani, foreste, animali non umani, come risorse passibili di sfruttamento.
Un
pensiero che si traduce in politiche ed economie dell’avidità basate su sistemi
di estrattivismo, eccessivo individualismo, cultura dello spreco e
dell’iper-consumismo.
Gli
insegnamenti buddhisti, permettendo di superare il concetto dualistico di ‘ambiente dell’uomo’,
rappresentano la base dell’ecologia profonda, termine con cui il filosofo
norvegese Arne Næss indicava
un’ecologia che va oltre il mero contrasto all’inquinamento (definito con il
termine di ‘ecologia di superficie’, incentrata su azioni per l’essere umano,
posto a sua volta al di sopra e al di fuori della Natura).
Per
l’ecologia profonda noi siamo Natura: al centro vi è la relazione di
reciprocità degli esseri umani con la Terra, di interdipendenza e di sacralità
di ogni forma di vita.
Il Buddhismo - nell’inequivocabile indicazione dei Canoni e nei voti dei bodhisattva e in particolare nelle pratiche di Thich Nhat Hanh, Buddhadāsa Bhikkhu e Phra Prayudh Payutto (Dhammapitaka) - è in sintonia con una visione eco-centrica, in una relazione di ‘inter-essere’ con la comunità della vita. Gli stessi esponenti dell’ecologia profonda (oltre Arne Næss anche Gary Snyder e Johanna Macy) hanno dimostrato grande interesse per la visione buddhista di anicca e di anattā e delle relative implicazioni etiche.
La
visione bio-centrica dell’ecologia profonda rappresenta, ritengo, la base più
solida su cui poggiare i Diritti della Terra. Garantire i Diritti della Terra significa riconoscere
a tutte le forme viventi, alla biosfera e ai suoi ecosistemi – alberi, oceani,
animali, compresi gli animali non umani, fiumi, laghi, montagne – gli stessi
diritti di cui godono gli esseri umani, come il diritto a esistere, mantenersi
e rigenerarsi.
Come
i diritti umani, i Diritti della Terra sono intrinseci e inalienabili: ogni
essere assume dignità di persona, con il diritto di vivere secondo la propria natura.
Da questo pensiero possono generare trasformazioni radicali che definiscono nuovi corsi, come è avvenuto nel passaggio dalla schiavitù al riconoscimento dei diritti umani universali. Anche grazie alla spinta dei movimenti dei popoli indigeni, i Diritti della Terra si stanno espandendo in tutto il mondo: a partire dalla Nuova Zelanda dove la legislazione ha riconosciuto al fiume Whanganui, al monte Taranaki e alla Foresta Te Urewera personalità giuridica con relativi diritti, al Bangladesh la cui Alta Corte nel 2019 ha riconosciuto i diritti a tutti i fiumi del Paese (in Bangladesh ci sono più di 200 fiumi) e alla National River Conservation Commission il ruolo di custode legale, all’Argentina dove nel 2020 la municipalità di Rosario ha adottato una decisione a sostegno del riconoscimento dei diritti del fiume Paranà (il secondo fiume più lungo di tutta l’America Latina), all’Ecuador dove dal 2008 i Diritti della Natura fanno parte della Costituzione, al Canada, che riconosce i diritti del fiume (300 km) Muteshekau-shipu, all’India, nel cui Stato di Uttarakhand una corte ha riconosciuto nel 2018 lo status di personalità giuridica all’intero regno animale, alle foreste, ai laghi, alle cascate e dove lo scorso aprile un giudice dell’Alta Corte di Madras ha emesso una sentenza secondo la quale Madre Natura ha gli stessi diritti degli umani, mentre il parlamento spagnolo ha riconosciuto i diritti al Mar Menor, la più grande laguna della penisola iberica.
Si tratta del primo ecosistema cui vengono riconosciuti diritti in Europa. La lista è vasta e in continua evoluzione. Per seguire gli aggiornamenti si può accedere a: ecojurisprudence.org.
Sono
i Diritti della Natura il punto di arrivo della nuova azione ecologista?
Probabilmente
no.
Tuttavia il loro riconoscimento è importante. È come se fossero uppaya, strumenti utili al raggiungimento di quella conversione ecologica che richiede una radicale trasformazione di pensiero in chiave biocentrica. Riconoscere i diritti dei non umani significa riconoscere la non separazione, significa abbandonare la visione antropocentrica, significa realizzare l’interdipendenza in chiave ecologica. È per questo che UBI è in prima linea, al fianco delle comunità locali e dei popoli indigeni, per promuovere un’ecologia profonda, una visione biocentrica e il riconoscimento dei diritti anche ai non umani.
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