Da precedenti
Nel cuore delle Ande
Non
è stata ancora scritta la biografia di Macedonio
Fernández, un uomo che rare volte accondiscese all’azione e che visse
dedicandosi ai puri godimenti del pensiero.
Macedonio Fernández nacque a
Buenos Aires il 10 giugno 1874 e
morì in questa stessa città il 10
febbraio 1952. Fece studi giuridici; perorò occasionalmente nei tribunali
e, ai primi del secolo, fu segretario della corte federale a Posadas. Intorno
al 1897 fondò in Paraguay, assieme a Julio Molina y Vedia e Arturo Muscari, una
colonia anarchica che durò quanto durano di solito queste utopie. Intorno al
1900, si sposò con Elena de Obieta, che gli diede vari figli e della cui morte
è patetico monumento una famosa elegia. L’amicizia era una delle passioni di
Macedonio. Tra i suoi amici ricordo Leopoldo Lugones, José Ingenieros, Juan B.
Justo, Marcelo del Mazo, Jorge Guillermo Borges, Santiago Dabove, Julio César
Dabove, Enrique Fernández Latour, Eduardo Girondo.
Negli
ultimi giorni del 1960, detto, seguendo i capricci della memoria e dei suoi
andirivieni, ciò che il tempo mi lascia delle amate e certamente misteriose
immagini che, per me, furono Macedonio Fernández.
Nel corso di una vita ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna mi ha impressionato come lui, neppure in un modo simile. Cercava di nascondere, non di esibire, la sua intelligenza straordinaria; parlava come ai margini del dialogo e tuttavia ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, all’affermazione magistrale. Non pontificava mai; la sua eloquenza era di poche parole e persino di frasi tronche. Il tono abituale era di prudente perplessità.
Posso
imitare, ma non descrivere, quella voce piana, resa roca dal tabacco. Ricordo
la fronte ampia, gli occhi di un colore indefinito, i capelli grigi e i baffi
grigi, la figura corta e quasi volgare. Il corpo in lui era quasi un pretesto
per lo spirito. Chi non l’ha frequentato può pensare ai ritratti di Mark Twain
o di Paul Valéry. Il primo di questi paragoni lo avrebbe rallegrato, non il
secondo, perché sospetto che Valéry, per lui, fosse una specie di ciarlatano
dello scrupolo. La sua simpatia per la cultura francese era alquanto
imperfetta; di Victor Hugo, che io ammiravo e ammiro, ricordo di avergli
sentito dire:
Smettila con quel gallego
insopportabile. Il lettore se n’è andato e lui continua a parlare.
La sera del famoso combattimento tra Carpentier e Dempsey, ci disse:
Al primo cazzotto di Dempsey, il
francesino sarà già in platea a chiedere indietro i soldi perché l’incontro è
stato troppo breve.
Gli
spagnoli preferiva giudicarli in base a Cervantes, che era uno dei suoi dèi, e
non a Gracián o a Góngora, che considerava delle calamità.
Ho
ereditato da mio padre l’amicizia e il culto di Macedonio. Intorno al 1921
tornammo dall’Europa, dopo una permanenza di molti anni. Le librerie di Ginevra
e un generoso stile di vita orale che avevo scoperto a Madrid all’inizio mi
mancavano molto; dimenticai questa nostalgia quando conobbi, o recuperai,
Macedonio. La mia ultima emozione in Europa era stata il dialogo con lo
scrittore ebreo spagnolo Rafael Cansinos Assens, nel quale erano comprese tutte
le lingue e tutte le letterature, come se lui stesso fosse l’Europa e tutti i
passati dell’Europa.
In
Macedonio trovai una cosa diversa.
Era come se Adamo, il primo uomo, pensasse e risolvesse nel Paradiso le questioni fondamentali. Cansinos era la somma del tempo; Macedonio la giovane eternità.
L’erudizione
gli sembrava una cosa vana, un modo macchinoso per non pensare. In un cortile
interno di calle Sarandi, una sera ci disse che se avesse potuto andare in
campagna e stendersi per terra a mezzogiorno e chiudere gli occhi e capire,
distraendosi dalle circostanze che ci distraggono, avrebbe potuto risolvere
immediatamente l’enigma dell’universo.
Non
so se tale felicità gli venne concessa, ma di sicuro la intravide.
Alcuni
anni dopo la morte di Macedonio, lessi che in certi monasteri buddhisti è
usanza che il maestro ravvivi il fuoco con alcune immagini sacre o destini a
usi impuri i libri canonici, per insegnare ai novizi che la lettera uccide e lo
spirito vivifica; pensai che questa curiosa notizia si adattava all’abito
mentale di Macedonio, ma che si sarebbe infastidito se gliel’avessi riferita,
considerandone il carattere esotico. Agli adepti del buddhismo Zen non piace
sentir parlare delle origini storiche della loro dottrina; similmente, a
Macedonio non sarebbe piaciuto sentir parlare di una pratica circostanziale e
non dell’intima verità, che è ora e qui, a Buenos Aires.
L’essenza onirica dell’Essere era uno dei temi preferiti di Macedonio, ma quando mi azzardai a riferirgli che un cinese aveva sognato di essere una farfalla e non sapeva, al risveglio, se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che adesso sognava di essere un uomo, Macedonio non si riconobbe in quell’antico specchio e si limitò a chiedermi la data del testo che stavo citando. Era del V secolo avanti Cristo e Macedonio osservò che la lingua cinese era cambiata così tanto da quella data lontana che di tutte le parole del racconto la parola ‘farfalla’ sarebbe stata l’unica dal significato non incerto.
L’attività
mentale di Macedonio era incessante e rapida, sebbene la sua esposizione fosse
lenta; non lo interessavano le confutazioni né le conferme altrui. Seguiva
imperturbabile la sua idea. Ricordo che attribuì una certa opinione a
Cervantes; un imprudente osservò che in un determinato capitolo del Don
Chisciotte si legge esattamente il contrario: Macedonio non si smosse di fronte
a quel piccolo ostacolo e disse:
Sarà, ma Cervantes lo scrisse per far
bella figura con il commissario.
Mio cugino Guillermo Juan, che studiava alla Scuola Navale di Rio Santiago, andò a far visita a Macedonio e questi osservò che in quell’istituto, in cui c’erano tanti provinciali, dovevano suonare spesso la chitarra. Mio cugino gli disse che si trovava lì da diversi mesi e non sapeva di nessuno che suonasse: Macedonio accettò la smentita come se si trattasse di una conferma e mi disse, con il tono di un uomo che completa l’affermazione di un altro: ‘Vedi, un centro chitarristico notevole’.
L’indolenza
ci induce a presupporre che gli altri siano fatti a nostra immagine; Macedonio
Fernández commetteva il generoso errore di attribuire la sua intelligenza a
tutti gli uomini. In prima istanza l’attribuiva agli argentini, che
costituivano, com’è naturale, i suoi interlocutori più frequenti. Mia madre una
volta l’accusò di essere sostenitore, o di essere stato sostenitore, di tutti i
diversi e successivi presidenti della Repubblica. Tali vicissitudini, che lo
fecero passare in un solo giorno dal culto di Yrigoyen a quello di Uriburu,
derivavano dalla sua convinzione che Buenos Aires non può sbagliarsi.
Ammirava, chiaramente senza averli letti, Josué Quesada o Enrique Larreta, per la sola e sufficiente ragione che tutti li ammiravano. Questa superstizione dell’argentinità lo spinse alla convinzione che Unamuno e gli altri spagnoli si erano messi a pensare, e spesso a pensare bene, perché sapevano che li avrebbero letti a Buenos Aires. Amava come persona e apprezzava come letterato Lugones, del quale fu molto amico, anche se una volta si divertì a scrivere un articolo in cui dichiarava la sua meraviglia che Lugones, nonostante le sue molte letture e il suo indiscutibile talento, non si fosse dedicato mai a scrivere. ‘Perché non ci regala un verso?’ si chiedeva.
Macedonio
possedeva al massimo grado le arti dell’inattività e della solitudine.
La
vita pastorale in un territorio quasi deserto aveva insegnato a noi argentini l’abitudine
alla solitudine senza tedio; la televisione, il telefono e, perché non dirlo?,
la lettura, sono colpevoli di averci fatto disimparare quel dono prezioso.
Macedonio era capace di stare da solo, senza fare nulla, per molte ore. Un
libro troppo famoso parla dell’uomo che sta solo e aspetta; Macedonio stava
solo e non aspettava nulla, abbandonandosi docilmente al mite fluire del tempo.
Aveva abituato i suoi sensi a non percepire le cose sgradevoli e a indugiare in
un piacere qualsiasi: l’odore del tabacco inglese, di un mate in preparazione o
di un volume - Il mondo come volontà e
rappresentazione, ricordo - rilegato in pelle spagnola.
Il caso lo portava in stanze modeste, senza finestre o con una finestra che dava su un angusto cortile interno; in pensioni dell’Once o del quartiere dei Tribunali; io aprivo la porta e lì c’era Macedonio, seduto sul letto o su una sedia dallo schienale diritto. Mi dava l’impressione di non essersi mosso per ore e di non accorgersi dell’aria chiusa e un po’ smorta dell’ambiente.
Non
ho mai conosciuto un uomo più freddoloso.
Si
copriva con un asciugamano, che gli pendeva sul petto e sulle spalle, allo
stile arabo; una tuba da cocchiere o un cappello nero di paglia potevano
coronare quell’equipaggiamento (i gauchos imbacuccati di certe litografie me lo
ricordano). Gli piaceva parlare del ‘benessere termico’; questo benessere, in
sostanza, consisteva di tre fiammiferi che lui accendeva e avvicinava a mo’ di
ventaglio al ventre. La mano sinistra reggeva quell’effimero e minimo
riscaldamento; la destra illustrava qualche ipotesi di carattere estetico o
metafisico. Il timore delle pericolose conseguenze di un raffreddore improvviso
gli aveva suggerito la convenienza di dormire vestito d’inverno; il calore
aggiuntivo del letto non gli importava.
Sosteneva che la barba, che assicura una temperatura costante, fosse una protezione naturale contro il mal di denti. La dietetica e le leccornie lo interessavano. Una sera discusse a lungo sulle rispettive virtù e sui danni della meringa e dell’alfajor; al termine di imparziali e scrupolose considerazioni teoriche, si pronunciò in favore della pasticceria criolla e tirò fuori una valigia polverosa che teneva sotto al letto. Dal fondo riesumò, tra manoscritti, mate e tabacco, alcune cose confuse che avevano ormai perduto il loro aspetto di alfajor e di meringa e che ci offrì con insistenza.
Questi
aneddoti rischiano di apparire ridicoli; così sembravano a noi a quell’epoca e
li raccontavamo, forse esagerandoli un po’, ma senza mai venir meno alla nostra
devozione. Voglio che di Macedonio non si perda nulla. Io, che adesso mi
soffermo a registrare quegli assurdi dettagli, continuo a credere che il loro
protagonista sia l’uomo più straordinario che ho conosciuto. Sono sicuro che a
Boswell accadde lo stesso con Samuel Johnson.
Per Macedonio Fernández scrivere non era un lavoro.
Viveva
(più di qualsiasi altra persona che ho conosciuto) per pensare.
Si
abbandonava quotidianamente alle vicissitudini e alle sorprese del pensiero,
come un nuotatore si abbandona a un grande fiume, e quel modo di pensare che si
chiama scrivere non gli costava il minimo sforzo. Il suo pensiero era vivido
quanto la trascrizione del suo pensiero; nella solitudine della sua stanza o
nell’agitazione di un caffè, riempiva pagine e pagine con la scrittura accurata
di un’epoca che ignorava la macchina da scrivere e per la quale una calligrafia
chiara faceva parte delle buone maniere. Le sue lettere più casuali non erano
meno ingegnose e prodighe delle pagine che destinava alle stampe e forse le
superavano in arguzia.
Macedonio non dava il minimo peso alla sua parola scritta; quando cambiava casa, non portava con sé i manoscritti di carattere metafisico o letterario che si erano accumulati sul tavolo e che riempivano casse e armadi.
Così
molte cose sono andate perdute; forse irrimediabilmente.
Ricordo
di avergli rimproverato una simile distrazione; mi disse che supporre di poter
perdere qualcosa è un atto di superbia, e che la mente umana è così povera che
è condannata a trovare, perdere e riscoprire sempre le stesse cose.
Un’altra
ragione della sua facilità letteraria era il suo incorreggibile disprezzo delle
sonorità verbali e persino dell’eufonia. ‘Non sono un lettore di musichine’ dichiarò una volta, e le ansietà
prosodiche di Lugones o di Darìo gli sembravano del tutto vane.
Riteneva che la poesia risiede nei caratteri, nelle idee o in una giustificazione estetica dell’universo; io, dopo tanti anni, sospetto che stia essenzialmente nell’intonazione, in un certo respiro della frase. Macedonio cercava la musica nella musica, non nel linguaggio. Ciò non ci ha impedito di percepire nei suoi testi - prima di tutto nella sua prosa - una musica involontaria che corrisponde alla cadenza personale della sua voce. Macedonio pretendeva dal romanzo che tutti i personaggi fossero eticamente perfetti; la nostra epoca sembra proporsi il contrario, a parte la degnissima eccezione di Shaw, che ha immaginato e modellato eroi e santi.
Dietro
alla sorridente cortesia e all’aria un po’ distaccata di Macedonio palpitavano
due timori, quello del dolore e quello della morte. Quest’ultimo lo indusse a
negare l’io, affinché non ci fosse un io che muore; il primo, a negare che il
dolore fisico potesse essere intenso. Voleva persuadersi, e persuaderci, che
l’organismo dell’uomo è incapace di un piacere forte e, di conseguenza, di un
dolore forte. Latour e io lo sentimmo enunciare questa pittoresca metafora:
In un mondo in cui i piaceri sono da
negozio di giocattoli, i dolori non possono essere da fonderia.
Fu inutile obiettare che non sempre il piacere è da negozio di giocattoli e che il mondo, inoltre, non ha motivo di essere simmetrico.
Per
non affrontare i ferri del dentista, Macedonio era solito praticare il tenace
artificio di allentarsi continuamente i denti; questa manipolazione la
effettuava dietro alla mano sinistra, che fungeva da schermo, mentre la destra
insisteva. Non so se il successo coronò quel lavorio di giorni e di anni.
L’uomo che sa che lo aspetta un dolore cerca, con buon istinto, di non
pensarci; Macedonio, al contrario, sosteneva che dobbiamo immaginarci con
anticipo il dolore e tutte le sue circostanze, affinché la realtà non riesca a
spaventarci.
Così
si immaginava la sala d’aspetto, la porta che si socchiude, il saluto, la
poltrona del dentista, i ferri, l’odore del disinfettante, l’acqua tiepida, le
pressioni, le luci, la penetrazione dell’ago e lo strappo finale. Questa
preparazione immaginaria doveva essere perfetta e non lasciare il minimo
spiraglio all’imprevisto; Macedonio non la terminò mai. Forse il metodo fu solo
una maniera di giustificare le immagini terribili che lo perseguitavano.
Il meccanismo della fama lo interessava, non il suo raggiungimento. Per un anno o due giocò con il vasto e vago progetto di diventare presidente della Repubblica. Molte persone si propongono di aprire una tabaccheria e quasi nessuno di diventare presidente; da questo aspetto statistico deduceva che è più facile diventare presidente che non proprietario di una tabaccheria. Qualcuno di noi osservò che è anche lecito dedurre che aprire una tabaccheria è più difficile che arrivare alla presidenza; Macedonio assentì con serietà.
La cosa più importante (ci ripeteva)
è la diffusione del nome.
Collaborare
al supplemento di un grande giornale era facile, ma la diffusione che si
raggiunge in questo modo corre il rischio di essere altrettanto banale come
Julio Dantas o le sigarette 43.
Conveniva
insinuarsi nell’immaginazione della gente in maniera più sottile ed enigmatica.
Macedonio scelse di approfittare del suo curioso nome di battesimo; mia sorella e alcune sue amiche scrivevano il nome di Macedonio su strisce di carta o bigliettini che accuratamente dimenticavano nelle pasticcerie, sui tram, sui marciapiedi, negli androni delle case e nei cinema. Un’altra astuzia era quella di ingraziarsi le comunità straniere; Macedonio, con una sognante solennità, ci raccontava di aver lasciato al Circolo Tedesco un volume spaiato di Schopenhauer, con la sua firma e con annotazioni a matita.
Da
queste manovre più o meno immaginarie e la cui esecuzione non bisognava
affrettare, perché bisognava procedere con somma cautela, nacque il progetto di
un grande romanzo fantastico, ambientato a Buenos Aires, e che iniziammo a
scrivere tutti insieme. (Se non sbaglio, Julio César Dabove conserva ancora il
manoscritto dei primi due capitoli; credo che avremmo potuto terminarlo, ma
Macedonio lo tirò per le lunghe perché gli piaceva parlare delle cose, non
farle).
L’opera si intitolava L’uomo che diventerà presidente; i personaggi della storia erano gli amici di Macedonio e all’ultima pagina il lettore avrebbe ricevuto la rivelazione che il libro era stato scritto da Macedonio Fernández, il protagonista, e dai fratelli Dabove e da Jorge Luis Borges, che si era ucciso alla fine del nono capitolo, e da Carlos Pérez Ruiz, che aveva avuto quella strana avventura con l’arcobaleno, e così via.
Nell’opera
si intrecciavano due argomenti: uno, visibile, le curiose manovre di Macedonio
per diventare presidente della Repubblica; l’altro, segreto, la cospirazione
ordita da una setta di miliardari nevrastenici e forse pazzi per ottenere lo
stesso scopo. Questi decidono di indebolire e minare la resistenza della gente
attraverso una serie graduale di invenzioni fastidiose. La prima (quella che ci
suggerì il romanzo) è quella delle zuccheriere automatiche che, di fatto,
impediscono di dolcificare il caffè. A questa ne seguono altre: la doppia
matita, a due punte, che minacciava di entrare negli occhi; le scale ripide
nelle quali non ci sono due scalini della stessa altezza; il raccomandatissimo
pettine-rasoio, che ci taglia le dita; gli utensili fabbricati con due nuovi
materiali antagonisti, di modo che le cose grandi risultino leggerissime e
quelle molto piccole pesantissime, per burlare la nostra aspettativa; la
moltiplicazione di paragrafi pieni di refusi nei romanzi polizieschi; la poesia
enigmatica e la pittura dadaista o cubista.
Nel primo capitolo, dedicato quasi interamente alla perplessità e ai timori di un giovane provinciale di fronte alla dottrina della non esistenza dell’io, e quindi di sé stesso, figura una sola invenzione, la zuccheriera automatica.
Nel
secondo ne figurano due, ma in modo marginale e fugace; il nostro proposito era
di introdurle progressivamente. Così come impazzivano i fatti, volevamo che
impazzisse lo stile; per il primo capitolo scegliemmo il tono colloquiale di
Pìo Baroja; l’ultimo avrebbe dovuto corrispondere alle pagine più barocche di
Quevedo. Nel finale cade il governo; Macedonio e Fernández Latour entrano nella
Casa Rosada, ma ormai nulla ha più significato in quel mondo anarchico. In
questo romanzo inconcluso potrebbe esserci benissimo qualche involontario
riflesso de L’uomo che fu Giovedì.
A
Macedonio la letteratura importava meno del pensiero e la pubblicazione meno
della letteratura, vale a dire quasi niente.
Milton o Mallarmé cercavano la giustificazione della loro vita nella stesura di un poema o forse di una pagina; Macedonio voleva capire l’universo e sapere chi era o sapere se era qualcuno. Scrivere e pubblicare erano per lui cose subalterne. Al di là dell’incanto della sua conversazione e della discreta presenza della sua amicizia, Macedonio ci proponeva l’esempio di un modo intellettuale di vivere. Coloro che oggi si definiscono intellettuali, in realtà non lo sono, poiché fanno dell’intelligenza un mestiere o uno strumento per l’azione.
Macedonio
era un contemplativo puro, che talvolta accondiscendeva a scrivere e pochissime
volte a pubblicare.
Per
presentare Macedonio non ho trovato maniera migliore degli aneddoti, ma questi,
quando sono memorabili, hanno lo svantaggio di trasformare il protagonista in
un ente meccanico, che ripete all’infinito lo stesso epigramma, ora classico, o
fa la stessa battuta. Altro furono i detti di Macedonio, imprevedibilmente
aggiunti alla realtà, che arricchivano e meravigliavano. Vorrei tanto
recuperare in qualche modo quel che fu Macedonio, quella felicità di sapere che
in una casa di Morón o dell’Once c’era un uomo magico la cui sola esistenza
spensierata era più importante delle nostre avventure o disavventure personali.
Questo sentii io, questo sentirono alcuni di noi, questo non posso comunicarlo.
Negata una materia durevole dietro alle apparenze del mondo, negato un io che percepisce le apparenze, Macedonio affermava, tuttavia, una realtà e quella realtà era la passione, che si manifestava nelle specie dell’arte e dell’amore. Sospetto che Macedonio considerasse l’amore ancor più prodigioso dell’arte; questa preferenza deriverebbe dal suo carattere affettuoso, non dalla sua dottrina, che comporta (come abbiamo già visto) la negazione dell’io, di modo che non ci sono né l’oggetto né il soggetto della passione, che sarebbe l’unica realtà. Macedonio ci disse che l’abbraccio dei corpi non è altro che il cenno - forse disse il saluto - che un’anima rivolge ad altre anime, ma non ci sono anime nella sua filosofia.
Come
Gùiraldes, Macedonio permise che il suo nome fosse legato alla cosiddetta
generazione della rivista Martín Fierro,
che propose all’attenzione un po’ distratta e scettica di Buenos Aires versioni
tardive e casalinghe del futurismo e del cubismo. A parte i rapporti personali,
l’inclusione di Macedonio in questo gruppo è ancora più ingiustificata di
quella di Gùiraldes; Don Segundo Sombra deriva da El payador, di Lugones, come
tutto l’ultraismo derivò dal Lunario sentimental, ma l’orbe di Macedonio è
assai più diverso e più vasto.
A
Macedonio interessò poco la tecnica della letteratura. Il culto dell’uomo dei
sobborghi e del gaucho suscitavano la sua canzonatura bonaria; in un’intervista
dichiarò che i gauchos erano un intrattenimento per i cavalli e aggiunse:
Sempre per terra! Che gran
camminatore!.
Una
sera parlavamo delle turbolente elezioni che resero famoso l’atrio del
quartiere Balvanera; Macedonio ci disse:
Noi abitanti di Balvanera siamo tutti
morti in quei comizi elettorali così pericolosi.
Al di là della sua dottrina filosofica e delle sue frequenti e delicate osservazioni estetiche, Macedonio ci offriva, e continua ad offrirci, lo spettacolo incomparabile di un uomo che, indifferente alle vicissitudini della fama, viveva nella passione e nella meditazione. Non so quali affinità o divergenze potrebbe rivelarci il confronto della filosofia di Macedonio con quella di Schopenhauer o di Hume; ci basti sapere che a Buenos Aires, intorno al millenovecentoventi e rotti, un uomo ripensò e scoprì certe cose eterne.
(Macedonio Fernández, selezione e prologo di
J.L.B., Biblioteca de Sesquicentenario,
Ediciones Culturales Argentinas, Buenos Aires, 1961)
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