venerdì 24 febbraio 2023

MISTICISMO o REALTA' UNIVERSALE

   







Da precedenti capitoli 


circa gli Iceberg





 

Il misticismo appare decisamente diverso nell’analisi praticata dalla scienze sociali. I fenomeni mistici vi vengono trattati come ‘oggetti’ conformi alle regole di ogni disciplina: la psichiatria, la storia o l’etnologia. Se, da questo punto di vista, si esaminano le trasformazioni che la mistica di un tempo subisce e, reciprocamente, le dislocazioni che, anche in questa forma alterata, essa introduce nelle nuove scienze, tre processi sono particolarmente significativi: a. l’assegnazione dei fenomeni mistici ad alcune regioni del sapere piuttosto che ad altre e gli effetti che vi producono; b. i transiti che fanno passare da una disciplina ad un’altra la definizione formale di questo ‘oggetto’ sfuggente; c. da ultimo, la messa tra parentesi dell’esperienza mistica da parte dell’attività che prende sul serio il compito di darsi un oggetto scientifico. 

 

Non pretendo di tracciare una storia dell’assimilazione scientifica della mistica (storia che inizierebbe con il progetto di colonizzarla e che si concluderebbe con la necessità di eliminarla) – sarebbe una caricatura –, ma suggerire una ‘storicità’ singolare: le trasformazioni della mistica, prodotte dalle discipline contemporanee, hanno nondimeno effetti propri, come se, nella stessa cornice che li muta in oggetti del sapere, i frammenti di una ‘scienza selvaggia’ mantenessero qualcosa di irriducibile.




 Solitamente, i fenomeni mistici vengono ospitati nelle discipline che riguardano la vita ‘individuale’. Stephen Sharot lo constatava recentemente:

 

È stata accordata poca attenzione ai contesti sociali del misticismo […]. È difficile trovare una sociologia del misticismo.

 

 Prescindendo dalle celebri analisi di Ernst Troeltsch e di Max Weber, nate da un confronto con lo storicismo tedesco, la mistica è stata generalmente immessa nella psicologia individuale, soprattutto patologica, i cui lavori, d’altro canto, sono stati privilegiati dalla filosofia. È possibile meravigliarsene, non solo a motivo di quanto costituisce la documentazione, ma soprattutto perché l’esperienza mistica, passata o presente, si offre di primo acchito sotto figure sociali: ‘scuole’ e gruppi, relazioni tra ‘maestro di verità’ e discepoli; reti di comunicazione e trasmissione (orale, scritta, gestuale, itinerante) che passano attraverso le filiere di famiglie, genealogie, ambienti, legami culturali e commerciali, ecc.; modelli di organizzazione (cenobitiche o eremitiche – poiché anche l’eremitismo costituisce una forma sociale) e protocolli di conversazione (confessioni, ammissioni, ‘direzione spirituale’); procedure di prova e di riconoscimento (attraverso l’ascesi, i miracoli, le guarigioni, il pellegrinaggio, ecc.); codificazioni sensoriali, alimentari, sessuali e linguistiche; tecniche di rappresentazione, di concentrazione o di ‘vuoto’ mentale; economie d’onore, di fedeltà, o di beni materiali scambiati contro valori simbolici, ecc.

 

Come mai, dunque, tutta questa esperienza è stata massicciamente classificata nella psicologia e trattata sotto la forma di fenomeni individuali?




Che il suo accesso allo statuto di oggetto scientifico sia associato alla sua de-socializzazione e alla sua de-politicizzazione, è anzitutto un effetto della storia. Per molto tempo la mistica non è stata un affare privato o individuale. Lo è divenuta nella misura in cui le credenze che aveva radicalizzato, puntando in maniera assoluta su di esse, smettevano di definire la tessitura del mondo vissuto. Un tempo, poiché in questo modo isolava i postulati di un universo, ha senza dubbio contribuito a separarli dalla realtà che fino a quel momento avevano fondato o, almeno, ha contribuito a manifestare il loro esilio progressivo alla larga dalle lotte quotidiane. Perciò spesso è stata accusata di essere ‘atea’, cosa che, nel lessico dell’epoca, significava sottrarre all’istituzione religiosa o civile il diritto di accreditarsi in nome delle sue origini o del suo fondamento.

 

A questo proposito, rimprovero già rivolto al cristianesimo nascente, l’‘ateismo’ è essenzialmente un crimine contro le autorità stabilite. Esso interessa la loro credibilità più che l’esistenza di Dio. Ogni Chiesa, allora, ne accusa quelle che scalzano la sua legittimità.

 

La mistica raggiunge proprio questo punto, in un grande dibattito storico sulle ‘autorità’. Nei secoli XVI e XVII, le poste in gioco sono fondamentalmente politiche, e le strategie che organizzano nuovamente i dispositivi di potere animano ovunque i percorsi del sapere in azioni intraprese al servizio di una riforma attraverso la produzione di metodi, utopie e pedagogie.




 Nel pasticcio delle istanze che compongono allora una sorta di gioco a tre termini – il principe (un testimone sacro dell’ordine cosmico), le istituzioni civili e religiose (una realtà instabile della storia) e ‘l’anima’ (un principio trascendentale) –, i ‘santi’ praticano una riduzione, ai loro occhi giustificata dalla ‘corruzione’ delle istituzioni, che tende a privilegiare il faccia a faccia (già biblico e tradizionale) del re e del profeta, del politico e del mistico, o del ‘principe’ e dell’ ‘anima’.

 

In una congiuntura che frammenta e sottomette spesso le Chiese, e che accentua smisuratamente (soprattutto nel XVII secolo) la natura quasi divina del Re, sono innumerevoli le forme che assume l’incontro tra queste due figure sociali, dall’appello di Teresa d’Avila a Filippo II perché sostenga la fondazione del Carmelo contro le autorità religiose, fino all’inquietudine quasi superstiziosa manifestata da Luigi XIV (nondimeno gratificato, come dice, di ‘ispirazioni’) nei confronti di oscuri complotti quietisti. È in gioco l’autorità e non la realtà del potere. Si tratta di una politica del credibile. Dall’Inghilterra alla Spagna, attraverso il confronto dei mistici con il potere che congiunge cielo e terra, separando dal potere un principio trascendentale o etico della società si configura una forma spirituale di quanto diverrà il ‘cittadino’. Già il quietismo e, con la sua prossimità, Fenelon, lo testimoniano.




 All’inizio del XX secolo, almeno in Europa occidentale, questa politica della mistica o dell’‘anima’ è compiuta. Si trasferisce nella sfera privata, sostituita sulla scena pubblica da altre esperienze e altri linguaggi. La psicologia, dunque, la raccoglie laddove la storia la relega. D’altro canto, Bergson e anche Husserl non si sbagliavano, acquista un ruolo dominante nei saperi relativi a una società ormai fondata sul postulato individualista. Tratta le unità che abbinano un’economia liberale e istituzioni democratiche. Se la storiografia promuove un discorso collettivo della nazione, della classe o della piccola patria, la psicologia – chimica dell’umano – scruta i meccanismi ‘elementari’ della vita sociale e punta alla loro razionalizzazione.

 

Costituisce il laboratorio centrale di una nuova politica.

 

È dunque a lei che spetta il compito di spiegare, nei termini di una problematica ancora pioniera, i fenomeni della mistica divenuti marginali se non addirittura aberranti. Non stupisce che tali fenomeni progressivamente dipendano dalla patologia, ramo d’élite in cui, in nome della psicologia e della medicina scientiste, ci si applica per comprendere e curare ciò che ‘resiste’ agli sviluppi della Ragione. Nel 1871, per il Dott. Michéa, non è poi così lontano il tempo in cui l’èstasi, ‘che è sempre uno stadio patologico’, non era del tutto entrata nel girone della patologia’.




 Al volgere del secolo seguente, essa vi rientra del tutto, con l’ebbrezza, la levitazione e molti altri ‘turbamenti’, dapprima sotto la categoria di ‘manie’ (‘teomanie’, ‘demonomanie’, ecc.) che designano zone anomale ancora da esplorare per scoprirvi prima ‘affezioni’ maligne e, in seguito, ‘costituzioni’ patogene. È la storia che fornisce la cornice in cui si inscrivono ‘osservazioni’ vieppiù precise, con una notevole semiologia spesso ineguagliata da allora.

 

Altro elemento determinante in queste analisi: il loro carattere oggettivo. Una sagomatura anatomica dei fatti permette di reperire il loro combinarsi e di stabilire tabelle, ma le sottrae alla loro funzione di essere il lessico di un linguaggio parlato e di inscriversi in pratiche interrelazionali in cui lo stesso osservatore si trova coinvolto. Non sorprende che la concezione ‘patologica’ di questi fenomeni isolati del processo interlocutorio raggiunga, per molti aspetti, la critica – così presente nei mistici dei secoli XVI e XVII – degli ‘stati’ (visioni, estasi, ecc.) ai quali lo spirituale si arresta, come se fosse ‘ciò’ l’esperienza divina, e che, per il fatto di essere così protetti dall’oltrepassamento originario (‘non è né questo né quello’), divengano ‘malattie’ dell’anima.




Colpisce, reciprocamente, che l’osservazione psicopatologica, quando è sufficientemente lunga e attenta da lasciar apparire gli effetti dello scambio tra soggetti nel loro movimento, prenda di nuovo l’andamento di una ‘direzione spirituale’ – cosa che colpiva già Freud. Così la celebre opera De l’angoisse à l’extase (1926), dedicata da Pierre Janet a questa Maddalena che, dice, ha seguito per ventidue anni. Analizzata come un caso di ‘astenia da costituzione’, è una strana ‘mistica’: nata in una famiglia borghese del nord della Francia, partita a diciotto anni per condividere in Germania la vita del proletariato (1872, dopo la guerra del 1870 e la Comune), poi vagabonda, operaia occasionale e più volte imprigionata a Parigi, dove rifiuta qualunque legame con altri vicini che non fossero ‘miserabili’, infine arrestatasi a Bichat, a Necker e alla Salpêtrière (1896). Affascina il suo osservatore, perché scrive più di duemila pagine indirizzate a ‘padre mio’. Pia, estatica ma allergica ai sacerdoti, ripristina sulla scena stessa della psichiatria i dialoghi mistici in cui il ‘direttore’, fosse Francesco di Sales o Fénelon, diveniva il discepolo e l’interprete di colei che dirigevano. Le novecento pagine che Janet dedica alla scienza e a Georges Dumas tradiscono la conversione dell’oggetto patologico in racconto di una relazione il cui carattere dialogico è velato appena dal pudore del medico. È in ospedale che, malata simile a tante eroine di Bremond, la mistica parla.




Il fenomeno si muove e si trasforma nel caso che gli è stato assegnato. Occorre allora circoscrivere formalmente quanto si intende per ‘mistica’. Lavoro di Sisifo: l’oggetto non smette di ricadere al di fuori del luogo teorico in cui lo ha situato una definizione. Il dibattito che da mezzo secolo occupa la riflessione anglo-americana è, a riguardo, tipico. Semplificato all’estremo, esso mira a determinare quali elementi possono ricapitolare tante esperienze diverse e a quale livello di analisi riconoscere cosa le unifica. L’impresa comincia, ovviamente, con investigazioni psicologiche. In una tradizione americana che ha sempre considerato il ‘sentimento religioso’ come maggiormente fondamentale o ‘elementare’ delle diverse Chiese in cui può trovare alloggio, linguaggio e applicazioni pratiche, William James caratterizza ‘l’esperienza mistica’ attraverso quattro tratti specifici: l’ineffabilità, la qualità noetica, la forma transitoria e la passività – descrizione di una fenomenologia più rigorosa della riduzione successivamente praticata da James Leuba, che riconduceva i fatti mistici all’estasi e quest’ultima ad una ‘incoscienza’ compatibile con ogni sorta di ideologizzazioni secondarie conformi al paesaggio culturale del rapimento. 

 

Quando, nel 1957, Zaehner riprende questa descrizione, ne fa il riscontro di un teismo e l’emblema sperimentale di una presenza divina. Stabilendo dei caratteri che suppone essere costanti, crede di isolare un fenomeno che attraversa le antinomie istituzionali, le diversità socio-storiche e perfino l’opposizione tra ‘sacro’ e ‘profano’. Vi riconosce dunque la manifestazione positiva di una realtà universale. È prendere un’interpretazione per la Cosa stessa. Lo scivolamento è significativo: la descrizione fenomenica di James viene trasformata da Zaehner in indicatore e prova di uno spiritualismo: essa assicura all’unità la vittoria sulle differenze (‘abissali’ per R. Otto) che separano tra di loro le intuizioni mistiche.




La stessa concezione monista di un’esperienza identificata con un ‘nucleo universale’ si ritrova in W.T. Stace o, nonostante le sue riserve nei confronti di Zaehner, in Ninian Smart, per il quale la mistica è ‘ovunque fenomenologicamente la stessa’ benché si debba tener conto di varianti ‘estrinseche’ attribuibili all’auto-interpretazione dei visionari nei propri contesti socio-culturali.

 

In quanto mistica, l’esperienza non appartiene né alla storia, né alla sociologia. Antibabelica per essenza, restituisce all’Uno il suo linguaggio primo.

 

Contro tale tendenza, già criticata da R. Otto e condotta a supporre la mistica ‘senza patria’, Steven Katz ha fatto ‘una requisitoria per il riconoscimento delle differenze’: egli rifiuta in pari misura la possibilità, da parte di un certo comparatismo, di assimilare il linguaggio di una tradizione spirituale a quello di un’altra, e la possibilità, per una certa fenomenologia, di postulare che una medesima ‘intenzionalità linguistica’ nei testi garantisca che essi mirano allo stesso ‘oggetto intenzionale’.

 

Attraverso la via di un’analisi del linguaggio, egli restituisce la mistica alla sua pluralità storica e riporta alla differenza lo statuto di non essere ‘estrinseca’ ma essenziale.

 

Ma allora cos’è questa mistica, contesa tra Dio e la storia che essa pretende di riconciliare sperimentalmente?

 

Bisogna crederle, e in che modo, quando si dichiara intuizione dell’assoluto in maniera singolare?




I dibattiti teorici in merito la pongono, suo malgrado, tanto da una parte, quanto dall’altra.

 

Secondo quali criteri?

 

È in nome di una filosofia del linguaggio, e di Wittgenstein, che Steven Katz rifiuta l’universalizzazione di cui le proposizioni mistiche sarebbero l’oggetto.

 

È significativo che in trent’anni la discussione sia passata dal terreno della psicologia a quello della linguistica, attraverso la mediazione di una fenomenologia a cui si accordava la capacità di enunciare la struttura stessa di un’esperienza fondamentale. Questa struttura, infatti, non specifica che una forma, ridotta alla fine a due caratteri: il paradossale e l’ineffabile. Si hanno così, alla fine, due regole essenziali proprie di una grammatica del discorso mistico. Esse non riguardano più né la storia né l’ontologia. Designano un protocollo di linguistica al di fuori del quale non sembra esserci espressione mistica, ma che non dice niente di ciò che è l’esperienza stessa. Questa determinazione, necessaria ma non sufficiente, accede a un valore universale solo se separata dall’utilizzazione (use in inglese) che ne fa il soggetto mistico, cioè dall’atto singolare che questi performa.




Ritagliando una forma di sapere che contrasta con la forma usuale delle nostre, designa almeno, come principio sollevato da un a priori monista o ontologico, un tipo di discorso – un altro ‘gesto del pensiero’ nella lingua. Anche se non è sicuro che tale forma sia propria al solo discorso mistico, essa traccia una ‘maniera di dire’ ad un tempo estranea ai nostri modi scientifici di ragionamento o di verifica e completamente omologa alla definizione essenziale che nei secoli XVII e XVII la scienza mistica dava di sé caratterizzandosi (lungo un altro registro linguistico) come un ‘modus loquendi’. Ancora una volta, l’oggetto passato sembra tornare, come un fantasma, sulla scena scientifica, ma altrove e altrimenti da come si pensava.

 

La difficoltà di circoscrivere formalmente l’esperienza mistica provoca una strategia differente che consiste nell’eliminare ciò che non può essere discusso. Ogni attività scientifica deve rinunciare a mantenere il reale negli oggetti che vi ritaglia. Il suo rigore si fonda sui limiti che si pone. Una pratica dell’oblio sostiene dunque la produzione di conoscenze. Forse, dopo tutto, si tratta solo di un’astuzia del cacciatore che allestisce con cura le trappole in cui rimane preso quanto non può essere catturato, ma tale astuzia è anche, reciprocamente, quella delle cose, accadute ben prima che le si cerchi, e che insinuano nei testi (e anzitutto in un modo di scrivere) mille maniere di sopravanzamento o di aggiramento di ciò che affermano di controllare. Praticare l’oblio non è così semplice. E dunque nemmeno diagnosticare quello che viene effettivamente omesso da uno studio scientifico.




Analizzata, osservata e trattata da numerose ricerche, la mistica infesta già il lavoro scientifico. Aspetti di quanto consideriamo un oggetto passato si rivelano, come per anamorfosi, attraverso gli echi che desta nel campo dei nostri saperi, attraverso le domande alle quali il suo studio presta un linguaggio. Si deve uscire dall’epistemologia che opponeva a un soggetto del sapere i suoi oggetti di studio. La strana storicità della mistica, all’interno stesso dei discorsi che pretendono di conoscerla, obbliga ad elaborare un altro modello di analisi al quale l’esame della letteratura scientifica contemporanea servirebbe da introduzione.

 

Mi sembra, in effetti, che sia possibile analizzare la letteratura mistica come un campo, definito da un insieme di positività storiche, in cui si effettuano e si tracciano operazioni mistiche.

 

In altri termini, la scienza mistica sarebbe costituita dai diversi modi sui quali tali operazioni si inscrivono nei reticoli storici del sapere, del linguaggio del corpo e delle istituzioni proprie di un’epoca e di un ambiente. Ogni testo o ogni documento (poiché siamo obbligati a lavorare su di essi) costituisce un teatro che il lessico e la sintassi di un momento della storia organizzano, ma in cui si marcano, come in un corpo intaccato, azioni singolari. Si tratterebbe di lasciare che queste operazioni si inscrivano nei luoghi che formano, e di tentare di specificarne le forme proprie, a cui aderirebbero i mistici quando elaborano la loro scienza.




Da qui, si articola essa stessa sulla storia, oggi si deve dunque poter riconoscere nei testi di questa scienza una scrittura che è la sua ‘maniera di fare’ – come nei laboratori ci sono ‘manipolazioni’ specifiche. Ogni documento mistico è anch’esso un laboratorio in cui gesti specifici si descrivono come quelli di una danza sulla scena.

 

Un modello, in questo senso, ci è proposto da G.G. Granger se, lasciando da parte quanto riguarda l’individuazione nel suo Essai d’une philosophie du style (1968), se ne trattiene il progetto di una stilistica della pratica scientifica, vale a dire la possibilità di isolare in un’opera il suo proprio stile, questa strutturazione latente e vissuta dell’attività scientifica stessa in quanto costituisce un aspetto della pratica.

 

Così come esistono stili scientifici (euclideo, cartesiano, vettoriale), esistono stili mistici anch’essi indissociabili da un’estetica. Da qui, allo stesso modo, si ritrova la pertinenza della definizione che la scienza mistica dava della sua iscrizione nella storia. La mistica non ha un proprio: è un esercizio dell’altro in rapporto a una posizione data; la mistica è caratterizzata da un insieme di operazioni specifiche in un campo che non è il suo – attraverso una maniera di procedere o di dire.

 

Con storiografia intendo lo studio storico, la scrittura della storia, per distinguere dal suo oggetto (la storia) l’analisi che ne viene compiuta. 

(Michel de Certeau, Fabula Mistica)









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