In riferimento ad uno
Dice Aristotele nel secondo libro della
Metafisica che…
‘come una cosa si pone rispetto all’essere, così
si pone rispetto alla verità’
…il significato
che la verità di una cosa, contenuta nella verità come nel suo soggetto,
risiede nella somiglianza perfetta di una cosa con il suo essere.
Delle cose
che esistono, tuttavia, alcune sono tali da contenere in sé l’essere assoluto;
in altre, invece, l’essere dipende da un’altra cosa con cui sta in relazione,
come essere nello stesso tempo e relazionarsi ad altro; come il padre e il
figlio, il signore e il servo, il doppio e la metà, il tutto e la parte, e
simili, in quanto tali.
Dal momento
che l’essere di tali cose dipende da altro, ne deriva che anche la verità di
esse dipende da altro: se si ignora la
metà, infatti, non si può mai conoscere il doppio, e così tutto il resto.
Pertanto,
quando si vuole fornire un’introduzione esplicativa su una parte di un’opera di
uno scrittore, occorre fornire qualche notizia della produzione integrale di cui
essa, un segmento. Per cui anch’io, intenzionato a offrire qualche spunto, in
qualità di introduzione, riguardo alla Cantica sopracitata della Commedia, ho
ritenuto di dover premettere qualche informazione riguardo all’intera opera,
affinché risulti più facile e completo l’approccio alla parte.
Dunque, sono sei gli aspetti da considerare, quando ci si accosta a qualunque opera dottrinale: il soggetto, l’autore, la forma espositiva, l’obiettivo, il titolo del libro e il genere della sua dottrina. Di queste, tre sono tali da variare in quell’aspetto che ho deciso di dedicare a voi, ossia nel soggetto, nella forma e nel titolo; negli altri aspetti, per la verità, non c’è variazione, come risulta evidente a chi l’esamini. Così nell’indagine sulla totalità, queste tre parti vanno considerate ‘in sé’: in tal modo sarà aperta la via all’introduzione. Successivamente analizzeremo le altre tre parti, non solo in rapporto alla globalità dell’opera, ma anche in riferimento alla sezione qui offerta.
Per
chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di
quest’opera: anzi, essa può essere definita ‘polisensa’, ossia dotata di più
significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura
alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato
profondo. Il primo si definisce
significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico.
E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da
questi versi:
‘Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la casa
di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e
Israele il suo dominio’.
Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell’anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell’anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna.
E benché
questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in
generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso
letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso.
Alla luce
di queste considerazioni, è evidente che occorrono due soggetti, intorno ai quali
corrano i due sensi. E perciò bisogna fare attenzione, in riferimento al
soggetto di quest’opera, dapprima che venga colto in senso letterale e successivamente
che quel medesimo soggetto sia colto in senso allegorico.
Preso solo nel suo senso letterale, dunque, il soggetto dell’intera Commedia riguarda semplicemente la condizione delle anime dopo la morte; infatti, l’opera tutta procede muovendosi attorno a questo tema. Se, in verità, si scava nel senso allegorico, il soggetto diventa nell’uomo che, meritando o non meritando, alla luce del libero arbitrio, è gratificato dal premio o dannato al giusto castigo.
La forma, a
sua volta, è duplice: la forma del trattato e la forma da trattare. La forma
del trattato è triplice, secondo una triplice divisione. La prima divisione è
quella per cui tutta la Commedia viene scandita in tre Cantiche; la seconda è quella
per cui ogni Cantica si divide in canti; la terza è quella per cui ogni canto
si divide in versi. La forma concepita come modo del trattare è poetica,
inventiva, descrittiva, digressiva, transuntiva e insieme definitiva, divisiva,
probativa, reprobativa ed esemplificativa.
Il titolo del libro è ‘Inizia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi’. A chiarimento di ciò dobbiamo sapere che commedia deriva da ‘comos’, ‘villaggio’, e ‘oda’, cioè ‘canto’: da qui commedia quasi ‘canto villereccio’. La commedia è un genere di narrazione poetica che differisce da tutti gli altri. Differisce dalla tragedia riguardo al contenuto: infatti la tragedia all’inizio suscita un sentimento di quieta ammirazione, ma nella conclusione è rivoltante e terrificante; è definita così perché deriva da ‘tragos’, che è il ‘capro’ e ‘oda’, come se si trattasse di un ‘canto del capro’.
Ossia
disgustoso e maleodorante appunto come un capro, come appare palese nelle tragedie
di Seneca. La commedia, poi, propone all’inizio le difficoltà di un evento, ma
lo sviluppo di questo approda a un esito felice, come si palesa nelle commedie
di Terenzio. Da qui alcuni scrittori hanno preso l’abitudine di usare, nei loro
saluti, invece di ‘salve’, l’espressione ‘tragico principio e comico finale’.
Allo stesso modo i due generi differiscono nell’espressione: alata e sublime è la tragedia, dimessa e umile la commedia, come afferma Orazio nella sua Arte poetica, dove consente talvolta ai comici di esprimersi come i tragici e viceversa: Talvolta, però, anche la commedia solleva lo stile, e Cremete, irato, disputa con ampolloso linguaggio; e spesso si dolgono con parole dimesse i tragici Telefo e Peleo... E per questo appare chiara la ragione per cui quest’opera si intitola Commedia.
Infatti, se
guardiamo al contenuto, inizialmente orribile e ripugnante, poiché descrive l’Inferno,
alla fine appare positiva, desiderabile e gradevole, perché illustra il Paradiso;
quanto all’espressione, viene impiegato un linguaggio misurato e umile, in
quanto usa la lingua volgare in cui si esprimono le donnette. Ma vi sono anche
altri generi di narrazioni poetiche, come il carme bucolico, l’elegia, la
satira e il canto votivo, come Orazio spiega nella sua Arte poetica; ma, in
questo contesto, non è opportuno parlare al riguardo.
A questo punto può risultare chiaro in che modo si debba determinare il soggetto della Cantica donata. Infatti, se il soggetto dell’intera opera, colta nel suo senso letterale, consiste nella condizione della anime dopo la morte, non limitato ma accolto nella sua semplicità, è manifesto che in questa cantica tale situazione sia il soggetto, ma solo per quanto riguarda la condizione delle anime beate. E se il soggetto dell’intera Commedia, intesa in senso allegorico, consiste nell’uomo che, alla luce del libero arbitrio, merita di essere premiato o punito dalla Giustizia divina, è chiaro che in questa parte questo soggetto viene determinato e consiste nell’uomo che merita il premio assegnato dalla Giustizia divina.
Si
definisce in questo modo la forma della Cantica, attraverso la forma della
Commedia tutta. Infatti, se la forma del trattato è triplice, in questa parte è
soltanto duplice: infatti, il Paradiso si divide in canti e in versi. Non può
contenere la prima divisione, perché essa stessa è il risultato di questa
scansione. Anche il titolo non richiede troppe spiegazioni: infatti, titolo dell’intera
opera è Inizia la Commedia... ecc., come dissi prima. Ne deriva che il titolo
di questa parte è Comincia la terza cantica della Commedia di Dante ecc..., che
si chiama Paradiso.
Analizzati i tre elementi per i quali la parte varia rispetto all’opera nel suo insieme, occorre parlare di quegli altri tre nei quali non esiste alcuna variazione rispetto alla totalità. L’autore della Cantica è il medesimo che ha scritto il tutto. L’obiettivo dell’opera e della Cantica potrebbe essere molteplice, ossia riguardare la realtà immediata e quella futura; ma, tralasciando ogni sottigliezza, per parlare brevemente, l’obiettivo della Commedia e di questa cantica consiste nell’allontanare i viventi, durante la loro esistenza, dallo stato di miseria spirituale, per condurli alla salvezza.
La branca
della filosofia, sotto la quale procedono l’opera e questa parte, è quella
della morale, ossia l’etica; infatti l’opera tutta, e questa parte, non è
finalizzata alla speculazione del pensiero, bensì a un risultato concreto. Infatti
se in qualche brano o in qualche passaggio il linguaggio si fa simile a quello della
filosofia speculativa, questo avviene non in virtù di un fine speculativo, ma
per necessità intrinseche all’opera stessa. Infatti, come dice il Filosofo nel
secondo libro della Metafisica, ‘su qualcosa e su momenti particolari talvolta
i pensatori pragmatici speculano’.
Fatte tali premesse, dobbiamo passare all’esposizione del significato letterale, attraverso qualche ‘assaggio’, e anticipare che l’esposizione letterale non è altro che la manifestazione della forma dell’opera. Questa parte, o terza Cantica, intitolata Paradiso, si divide principalmente in due parti, cioè il Prologo e la parte esecutiva. La seconda parte comincia così: ‘Sorge ai mortali per diverse foci...’
Della prima
parte occorre sapere che, per quanto possa chiamarsi Esordio, nel linguaggio comune,
se vogliamo esprimerci con proprietà non può essere definito altro che Prologo.
Questo sembra voler suggerire il Filosofo (Aristotele) nel terzo libro della
Retorica, laddove dice che ‘il proemio è l’inizio nell’orazione retorica, così
come il prologo lo della poesia e il preludio del brano musicale’. Si deve
anche premettere che tale introduzione, che potremmo comunemente definire esordio,
viene effettuata diversamente dai poeti e dai retori.
Infatti i Retori hanno permesso che le future affermazioni venissero pregustate per accattivarsi l’attenzione dell’uditorio; i poeti non soltanto fanno ciò, ma, dopo, aggiungono un’invocazione. E questo conviene loro perché necessitano di un’ampia invocazione, poiché tocca loro chiedere agli esseri superiori qualcosa che va oltre la misura d’uomo, una sorta di dono divino.
Dunque
questo prologo si divide in due parti, perché nella prima viene anticipata la
materia della Cantica, nella seonda viene invocato Apollo. E la seconda parte
comincia così: ‘O buon Apollo, all’ultima
fatica...’. Quanto alla prima parte
va notato che tre sono i requisiti di un buon esordio, come dice Marco Tullio
Cicerone nella Nuova Retorica: la capacità di rendere benevolo, attento e
docile il lettore; e ciò soprattutto in un genere straordinario, come dice
Tullio medesimo. Essendo straordinaria la materia trattata dalla presente
opera, riconducibile, pertanto, al genere straordinario, nell’esordio si cerca
di ottenere questi tre risultati.
Infatti afferma che illustrerà ciò che l’autore ha visto nel primo cielo e ha conservato nella memoria. In tale affermazione sono contenuti tutti e tre quei requisiti: la benevolenza deriva dall’utilità di quanto si narra, l’attenzione dalla natura straordinaria della materia narrata, la docilità dal fatto che sia una narrazione plausibile. Suggerisce l’utilità quando dice che illustrerà ciò che più attrae l’uomo, ossia il gaudio del Paradiso; stimola l’attenzione quando promette che dirà cose alte e sublimi, come le condizioni del regno celeste. Mostra la plausibilità quando ribadisce che racconterà ciò che la mente ha potuto trattenere.
Confermata
dunque la positività e la perfezione della prima parte del prologo, si proceda
alla lettera. Afferma, dunque, che ‘la gloria del primo Motore’, che è Dio, ‘in
ogni parte dell’universo risplende’, ma in modo che ‘in alcune parti di più, in
altre di meno’. Il fatto che risplenda ovunque è chiaro alla luce della ragione
e dell’autorità. La ragione così: Tutto ciò che è, o deriva da sé o da altro; ma
si sa che derivare da sé non è possibile se non a uno solo, cioè al primo
essere ossia al principio, che è Dio.
Infatti avere l’essere non significa che sia necessario per se stesso ed essere necessariamente per se stessi non compete che a uno solo, cioè al primo e al principio, che è causa del tutto; pertanto tutto ciò che esiste, tranne quell’uno stesso, deriva da altro. Se dunque si accetta non una cosa qualunque, ma la realtà ultima dell’universo, è manifesto che essa riceve l’essere da un altro; e ciò che gliela dà, la riceve a sua volta o da sé o da altro.
Se riceve l’essere
da sé è il primo, se da altro, anche in ciò similmente o da sé o da altro. E poiché
questo processo può continuare all’infinito rispetto alle cause agenti, come si
dimostra nel secondo libro della Metafisica, si arriverà alla prima causa che è
Dio, e così, o attraverso mediazioni, o immediatamente, tutto ciò che esiste deriva
da lui.
Infatti la
causa seconda riceve dal primo, influisce sopra l’effetto in misura di quel che
riceve dal primo, come ciò che riceve un raggio e lo riflette: per questo la causa
prima è maggiormente causa. Questo viene trattato nel libro Delle Cause: ‘ogni
causa primaria influisce maggiormente sopra il suo effetto di una causa
universale seconda’.
Questo per
quanto riguarda l’essere.
Quanto poi all’essenza, ragiono in questi termini: Ogni essenza, tranne la prima, ha una sua causa. Diversamente, sarebbero numerose le cose che esisterebbero per sé: impossibile. Ogni effetto è prodotto o dalla natura o dall’intelletto: quello che è prodotto dalla natura è causato, per conseguenza, dall’intelletto, perché la natura è opera dell’intelligenza; ogni effetto è frutto, quindi, di un intelletto, o per mediazione o immediatamente.
Dal momento
che la virtù segue l’essenza di cui è virtù, se l’essenza è intellettiva, è
tutta e di quella sola che causa. E così, come in precedenza si giungeva alla
causa primaria dell’essere stesso, così ora si perviene alla causa primaria dell’essenza
e della virtù. Per ciò è chiaro che ogni essenza e virtù procedono dalla prima
e le intelligenze inferiori le ricevono come se irradiassero da un centro, e restituissero
questi raggi ricevuti da una realtà superiore a una realtà inferiore, come uno
specchio.
A questo sembra accennare abbastanza chiaramente Dionigi nell’opera ‘Le gerarchie celesti’. E per questo si dice, nel libro Delle Cause che ‘ogni intelligenza è satura di forme’. Si chiarisce quindi in che modo la ragione riflette la luce divina e risplende dappertutto.
Allo stesso
modo, e anche in maniera più dotta, lo dimostrano gli Auctores. Dice infatti lo
Spirito Santo, attraverso Geremia: ‘Io riempio cielo e terra’ e nel Salmo ‘Dove
mi nasconderò dal tuo spirito? e dove fuggirò dalla tua vista? Se ascenderò in
cielo tu sei lì, se scenderò nell’inferno, sarai presente. Se mi rivestirò
delle mie penne, ecc.’ E nel Libro della Sapienza si dice che ‘Lo Spirito di
Dio riempì l’universo’. E l’Ecclesiastico, nel quarantaduesimo libro: ‘La
creazione di Dio è tutta piena della sua gloria’, affermazione confermata
persino dai testi dei pagani; per cui Lucano, nel nono libro ‘Giove è ovunque
tu guardi, dovunque tu vada’.
Si dice dunque bene quando si afferma che il raggio di Dio, ossia la gloria divina ‘per l’universo penetra e risplende’: penetra quanto all’essenza, risplende quanto all’essere. Quanto viene aggiunto circa ‘più e meno’ è vero in modo palese; infatti, vediamo una certa essenza in un qualche grado più eccellente e una certa essenza in uno inferiore; come è palese a proposito del cielo e degli elementi dei quali, in verità, l’uno è incorruttibile e gli altri corruttibili.
E dopo aver
premesso tale verità, prosegue parlando per perifrasi del Paradiso. E dice che
fu in quel cielo che più abbondantemente riceve la gloria di Dio, cioè la luce.
Per questo motivo bisogna sapere che quello è il cielo supremo che contiene
tutti i corpi e che non è contenuto, dentro il quale tutti i corpi si muovono,
mentre esso è immobile in una quiete sempiterna e non riceve virtù da nessuna sostanza
corporale. Viene detto Empireo, che significa ‘cielo ardente del suo stesso
fuoco’, non perché in esso vi sia del fuoco o ardore materiale, ma spirituale,
cioè l’amore santo, ovverossia la carità.
Quanto al fatto che riceva in maggiore quantità la luce divina, lo si può poi dimostrare attraverso due argomentazioni: in primo luogo per il fatto che in sé contiene ogni cosa e da nulla è contenuto; in secondo luogo che sta in una sua sempiterna quiete o pace. Il primo punto è dimostrato così: il contenente si rapporta al contenuto, in una situazione naturale, come il formativo si rapporta al formabile, come si dice nel quarto libro della Fisica; ma nella natura dell’universo il primo cielo racchiude tutte le cose; quindi si rapporta a ogni cosa come il formativo al formabile, il che corrisponde al rapporto di causa-effetto.
E poiché
ogni forza causativa come un raggio che emana da Dio, causa prima, è palese che
quel cielo, che più partecipa del carattere di causa, più riceve la luce
divina. Quanto al secondo, viene dimostrato così: Tutto quanto si muove, si
muove ad opera di qualcosa che non ha (moto), che è termine del suo moto
stesso; come il cielo della Luna si muove per una certa parte di sé, che in sé
non ha la Causa verso cui muove; e poiché una parte di cielo, e ciò è
impossibile, non può scegliersi un luogo, si muove alla ricerca di un altro, ne
discende la ragione del suo movimento e non sta mai fermo, ed è questo il suo desiderio.
E ciò che dico a proposito del Cielo della Luna, può essere esteso a ogni altro, tranne che al primo (Mobile). Tutto ciò che si muove manca di qualche cosa e non possiede integro tutto il suo essere. Pertanto quel cielo che non è mosso da alcunché, possiede in sé la perfezione del suo essere. E poiché ogni perfezione discende dalla prima perfezione, che è perfezione in sommo grado, ne deriva chiaramente che il primo cielo riceve di più la luce del primo essere, cioè Dio.
Pertanto questo
ragionamento sembra argomentare sulla distruzione del precedente, così che non
attua la dimostrazione linearmente e secondo la forma del sillogismo. Ma se consideriamo
la materia di quello, attua una dimostrazione adeguata, perché si parla di una
realtà eterna, in cui si può eternare la mancanza, cosicché, se Dio non gli
diede il moto, palesemente non gli diede neppure materia e che difettasse in
qualcosa.
E attraverso
questa supposizione l’argomento regge in ragione della materia. Argomentare
così come se dicessi: Se l’uomo esiste, è capace di ridere. Infatti in tutte le
proposizioni convertibili si ha simile sostegno grazie alla materia. Quindi
così risulta chiaro: quando la Cantica dice ‘in quel cielo che più riceve la
luce di Dio’ intende parlare, in forma di perifrasi, del Paradiso, cioè del
cielo Empireo.
Date queste premesse, in pieno accordo dice il Filosofo nel primo libro Del Cielo che il cielo ‘tanto più possiede materia raffinata rispetto a quelli inferiori, quanto più è lontano dalle cose di quaggiù’. A sostegno di ciò si può addurre ciò che dice l’Apostolo agli Efesini, a proposito di Cristo: ‘Colui che ascese al di sopra di tutti i cieli, per dare compimento a tutte le cose’. Questo è il cielo delle delizie di Dio, di cui Ezechiele parla contro Lucifero: ‘Tu fosti, insegna della somiglianza, pieno di sapienza e perfezione di bellezza, e fosti nelle delizie del Paradiso di Dio’.
E dopo che
ha detto per perifrasi che fu in Paradiso, l’autore prosegue affermando di aver
visto alcune cose che non può riferire chi è disceso da lassù. E giustifica ciò
dicendo che ‘l’intelletto tanto sprofonda nel suo stesso desiderio’, che è Dio,
‘che la memoria non riesce a tenergli dietro’.
Per capire questa affermazione bisogna sapere che l’intelletto umano, in questa vita, per l’affinità e connaturalità che ha con la sostanza intellettuale separata, quando si eleva, si eleva a tal punto che la memoria, al ritorno, viene meno per aver trasceso la misura umana. E ci suggerisce l’Apostolo (Paolo) nella ‘Lettera ai Corinzi’, laddove dice: ‘So che un uomo – non so se con il corpo o fuori dal suo corpo, Dio lo sa - fu rapito al terzo cielo e vide i misteri divini di cui all’uomo non è lecito parlare’.
Ecco, dopo
che l’intelletto aveva trasceso, con questa ascensione, l’umana ragione, non
ricordava che cosa fosse accaduto intorno a lui. Questo ci suggerisce Matteo,
quando tre discepoli caddero a terra, non sapendo poi dare spiegazioni, quasi immemori.
E scrive Ezechiele: ‘Vidi e caddi a terra’. E se gli oppositori non si
accontentano di queste autorevoli argomentazioni, leggano La contemplazione di
Riccardo di San Vittore, leggano La considerazione di Bernardo, La quantità
dell'anima di Agostino e non saranno più contrari.
Se poi latrassero contro tanto impegnativa disposizione dell’autore di elevarsi, a causa del peccato, leggano Daniele, dove troveranno che Nabucodonosor, per virtù divina, ebbe visioni contro i peccatori, ma le dimenticò. Infatti ‘colui che fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti’ talvolta misericordiosamente per convertire, talaltra severamente per punire, più o meno, come vuole, manifesta la sua gloria ai viventi, per quanto vivano male.
Ha visto,
dunque, come dice, alcune cose ‘che, tornando, non sa né può ridire’.
Diligentemente, invero, da notare che dice ‘non sa e non può’: non sa perché le
ha dimenticate, non può perché, se anche le ricorda e le conosce nel contenuto,
tuttavia gli viene meno la parola. Infatti vediamo che molte cose nell’intelletto
mancano della corrispondente espressione linguistica; questo suggerisce abbondantemente
Platone nei suoi libri, attraverso
metafore: infatti molte cose vide con la luce dell'intelletto che non seppe esprimere
con linguaggio adeguato.
Poi dice che illustrerà quelle cose che ha potuto conservare nella memoria circa il regno dei cieli: questa la ‘materia’ dell’opera sua; la sua qualità ed estensione emergerà nel corso della lettura. In seguito, quando dice ‘O buon Apollo, ecc.’, effettua la sua invocazione. Questa parte si divide in due segmenti poetici: il primo attua l’invocazione, il secondo persuade Apollo, fatta la richiesta, ad accordare la ricompensa.
E la
seconda parte inizia con l’espressione ‘O divina virtù’. Dapprima l’autore chiede
l’aiuto divino, successivamente accenna alla necessità della sua richiesta
ossia la giustifica: ‘Fino a qui una delle due cime di Parnaso’ ecc. Questo il
senso della seconda parte del Prologo in generale. Veramente non l’esporrò ora
nei suoi particolari; infatti sono assillato dalla povertà, per cui devo tralasciare
queste e altre cose utili alla collettività. Ma spero che la vostra Magnificenza
conceda che in altre circostanze sia possibile procedere all’utile esposizione.
Nella parte esecutiva, divisa dal Prologo, non si può dir nulla, al presente, né della sua suddivisione né della sua interpretazione, tranne questo: in ogni canto si procederà salendo di cielo in cielo e parleranno le anime beate incontrate in ognuna delle varie sfere e che la vera beatitudine consiste nell’accettazione del principio della verità, come appare chiaro nel Vangelo di Giovanni: ‘Questa la vita eterna, affinché conoscano Te, vero Dio’ e nel dialogo La consolazione della filosofia di Boezio: ‘Il fine è vedere Te’.
Da questo deriva
che, per mostrare la gloria della beatitudine in quelle anime, saranno poste
loro molte domande, di grande utilità e diletto: infatti esse vedono tutta la
verità. E poiché, trovato il principio o l’Essere primo, cioè Dio, non c’è più
null’altro da cercare, perché Egli è l’alfa e l’omega, l’opera termina in Dio,
benedetto nei secoli dei secoli.
(Dante Alighieri)
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