Approfondimenti circa...
lo Straniero
Come sappiamo,
fu Benedetto Croce a proporre in
un’affollata assemblea a Firenze (1908)
di approvare per acclamazione la petizione che chiedeva ‘la suprema sanzione del Senato del Regno’ alla legge ‘Per l’Antichità e
le Belle Arti’, già approvata alla Camera in un testo che conteneva
ancora gli articoli sulla tutela del paesaggio e
sull’‘azione popolare’, ma ferma al Senato, che l’avrebbe poi passata
cassando quei due articoli. Senatore dal
1910 e ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti (giugno 1920 - luglio 1921), Croce avrebbe poi varato la prima legge italiana per la
tutela del paesaggio.
La
tutela del paesaggio in Italia (un Paese in cui l’industrializzazione procedeva allora con
ritmo assai più lento che nell’Europa del Nord) fu dunque storicamente più
recente di quella del patrimonio artistico, ma si innesta sul medesimo tessuto
etico, giuridico, civile e politico, si arrivò infatti con un percorso che
intreccia strettamente ‘bellezze naturali’ ed emergenze monumentali. Lo mostra
bene un battagliero articolo di Corrado
Ricci su ‘Emporium’ del 1905,
che metteva insieme tre vicende di quegli anni: il tentativo di aprire una
nuova porta nelle mura di Lucca (che fu allora battuto da una vasta campagna di
opinione, a cui parteciparono Carducci, Pascoli e D’Annunzio, ma anche Giovanni
Rosadi sul ‘Marzocco’), e le minacciate distruzioni della cascata delle Marmore
e della pineta di Ravenna.
L’ambito di
applicazione era limitato, ma non impedì al ministro Rava (che sulla pineta
aveva già scritto sulla Nuova Antologia del 1897) di trarne conclusioni di
carattere assai più generali.
‘Il culto
delle civili ricordanze’, disse presentando la legge alla Camera, merita di
incarnarsi non solo in monumenti e opere d’arte, ma va esteso ‘ai monti, alle
acque, alle foreste, a tutte quelle parti del patrio suolo, che lunghe
tradizioni associarono agli atteggiamenti morali e alle vicende politiche di un
grande Paese’. Troppo (rispetto alla lettera di quella legge, limitata a
Ravenna), e troppo poco (rispetto alle ambizioni e ai progetti): perciò la
Camera, dopo averla approvata, votò l’auspicio per ‘un disegno di legge per la
conservazione delle bellezze naturali che si connettono alla letteratura,
all’arte, alla storia d’Italia’.
Anche quando il Senato, soppresse la tutela del paesaggio dalla legge Rava del 1909, si ricorse all’artifizio parlamentare di approvare un ordine del giorno senza la minima conseguenza pratica. Riprendendo in parte il linguaggio del 1905, esso impegnava il governo a presentare un disegno di legge ‘per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie che si connettono alla storia o alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza’. In questo testo brevissimo, il termine ‘paesaggio’ è evitato, e la dizione ‘altre proprietà fondiarie’ indica di dove venissero le resistenze a includere il paesaggio fra i beni da tutelare. Almeno in Senato, ogni limitazione della piena proprietà privata era ancora impraticabile sul piano legislativo, e non per una contrapposizione tra Destra e Sinistra, bensì per le spaccature all’interno del mondo liberale, dove anche l’alta aristocrazia presente sui banchi del Senato si divise fra i difensori a oltranza dei diritti di edificazione (i principi Colonna e Odescalchi) e i fautori della tutela (il principe Corsini).
Sorgevano intanto anche in Italia associazioni variamente protezionistiche, dal Touring Club (1894) all’Associazione nazionale per i paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia (1906), alla Lega nazionale per la protezione dei monumenti naturali (1914), ai movimenti locali come quelli ‘Per Bologna storica e artistica’ o ‘Per la difesa di Firenze antica’, ai movimenti d’opinione suscitati da cittadini e intellettuali intorno a singoli temi di alto valore emblematico, per esempio per la difesa di Villa Borghese minacciata da progetti edilizi (1906: di esso fece parte, con molti altri da Alessandro D’Ancona a Grazia Deledda, anche Benedetto Croce).
Per merito
soprattutto di Corrado Ricci, si sviluppava intanto un vasto dibattito sui
giornali, specialmente ‘Il Giornale d’Italia’ e il ‘Corriere della Sera’, con
duratura influenza sull’opinione pubblica. Sul fronte opposto, proseguivano le
resistenze in nome dello ius utendi et abutendi del privato proprietario. Si
negava, per esempio, che fra ‘le cose immobili che abbiano interesse storico o
artistico’ protette dalla legge del 1909 vi
fossero anche ville e giardini: a chiarirlo fu necessaria un’apposita legge (688/1912),
voluta da Corrado Ricci, che, integrando l’art. 1 della legge del 1909, estese
espressamente l’ambito della tutela anche ‘alle ville, ai parchi e ai giardini
che abbiano interesse storico o artistico’.
Solo così poteva essere arrestata, lo affermò il ministro Luigi Credaro nella relazione introduttiva, ‘la corsa affannosa alla speculazione, il desiderio di dare alle proprie sostanze il più utile e redditizio impiego …la spinta del sempre crescente urbanismo a trasformare in terreni fabbricabili le aree occupate da parchi e da giardini… gloria del nostro Paese, documento della genialità e della magnificenza dei nostri padri’.
Ma Giovanni
Rosadi non aveva rinunciato alla battaglia per la tutela del paesaggio, e già il 14 maggio 1910, meno di un anno dopo
l’approvazione della legge di tutela da cui il Senato aveva cancellato
l’articolo relativo, presentò una nuova proposta di legge (poi discussa alla
Camera il 5 luglio 1911) tesa a
tutelare ‘i paesaggi, le foreste, i parchi, i giardini,
le acque, le ville e tutti quei luoghi che hanno un notevole interesse pubblico
a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la
storia e con la letteratura’, e che perciò ‘non possono essere distrutti
né alterati senza autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione’; per
garantirlo, erano previsti vincoli del tutto analoghi a quelli previsti dalla
legge del 1909 per i monumenti e gli oggetti d’arte.
Nella relazione introduttiva, Rosadi additava come esempio quanto era avvenuto ‘in America, nell’utilitaria America’, che aveva creato l’enorme Parco nazionale di Yellowstone, ma anche in vari Paesi europei, specialmente in Francia. Quindi, con movimento per quel tempo non ovvio, Rosadi connetteva paesaggio e ambiente: ‘come si eccitano e diffondono precetti di igiene, di decenza, di quiete e di riposo, così non è forse eccesso di persecuzione legislativa imporre obblighi di rispetto alla bellezza che non si crea [cioè ai paesaggi naturali], particolarmente in Italia!’.
Il
disegno di legge Rosadi accentuò l’attenzione al tema di intellettuali e
politici. Nelle discussioni di quegli anni, vediamo all’opera anche in Italia
gli stessi ‘due cuori’ del problema che abbiamo indicato per altri Paesi
europei: da un lato il perimetro delle cose da tutelare, dall’altro il rapporto
fra pubblico interesse e proprietà privata.
Si cercava assiduamente una formulazione coerente e funzionale delle norme, ma scontrandosi a ogni passo con la difficoltà di circoscrivere l’oggetto della tutela e di trovare per essa un solido fondamento giuridico. Come definire le ‘bellezze naturali’, come distinguerle o ritagliarle dalle ‘proprietà fondiarie’?
Fin dove
può giungere in questo caso il ‘pubblico interesse’, fin dove può agire da
limite ai diritti dei proprietari?
Chi
dovrebbe sancire la ‘singolare bellezza’ delle aree soggette a tutela, o
certificarne il riferimento alla storia o alla letteratura?
Il riferimento a discussioni e provvedimenti delle principali nazioni straniere s’intreccia inoltre strettamente in Italia con un altro tema centrale (specialmente dopo la legge del 1909): il rapporto fra tutela dei paesaggi e tutela delle cose e dei monumenti d’arte. Era quello un intreccio necessario e naturale, in Italia più che altrove. Necessario, perché il nesso organico fra i due versanti della tutela (paesaggio e patrimonio storico-artistico) era già presente nella proposta di legge del 1909, e ne fu eliminato solo per la pervicace opposizione del Senato: non solo la tenacia di Rosadi, ma le ragioni della politica e della tecnica parlamentare tendevano dunque a inserire i paesaggi negli stessi dispositivi giuridici di una legge già operante, assimilando il paesaggio alle ‘antichità e belle arti’. Naturale, per quella intima integrazione di paesaggio e segni dell’uomo – della ‘prima’ e della ‘seconda natura’, se vogliamo dirlo con Goethe, che è il più vistoso segnale della specificità italiana.
Il dibattito che si svolse fra la legge sulle antichità e le belle arti del 1909 e la legge sul paesaggio del 1920-22 è troppo complesso e articolato per tentarne qui anche solo un sommario rendiconto, che peraltro si può trovare nel libro già citato di Luigi Piccioni.
Scelgo
tuttavia due voci, che meglio si prestano a mettere a fuoco alcuni punti
rilevanti.
Sono due nomi oggi dimenticati dai più, ma che ebbero allora la
lucidità di guardare alla proposta Rosadi con
sguardo simpatetico ma critico. Dei due, uno (Luigi Parpagliolo) era un alto
funzionario ministeriale, e contribuì al dibattito dall’interno delle istituzioni
(sarà anche membro della Commissione ministeriale che scrisse la legge Croce);
l’altro (Nicola Falcone) è un completo outsider, un giovane giurista abruzzese,
di cui si sa pochissimo, che su questi temi scrisse un libro assai originale,
“Il
paesaggio italico e la sua difesa”.
Studio
giuridico-estetico (1914), e morì
poi sul fronte nel 1916.
Falcone
aveva pubblicato l’anno prima una raccolta di norme di tutela delle antichità e
belle arti dal diritto romano ad oggi; ed è con quell’esperienza in mente che
egli affronta il tema della proprietà privata, principale ostacolo alla tutela
del paesaggio. Totale e illimitato negli antichi assolutismi, egli argomenta,
il diritto di proprietà venne profondamente modificato quando la consapevolezza
dei diritti dell’uomo cambiò i termini del patto sociale: da allora, lo Stato mutò forma diventando ‘l’esponente del
pubblico interesse, l’interprete della volontà collettiva ed il prodotto della
legge di sociale convivenza’; in questo quadro, la proprietà privata incontra
un necessario limite nel principio del pubblico bene e della cooperazione fra i
cittadini.
Luigi
Parpagliolo
intervenne più volte sul tema: dopo l’intervento già ricordato sul ‘Fanfulla’ del 1905, a lui si devono influenti
articoli sulla ‘Nuova Antologia’ del 1911
e del 1913, ma anche un’ampia raccolta di norme e di precedenti giuridici
simile a quella pubblicata da Falcone lo stesso anno (1913), che forse non a caso è lo stesso del Regolamento
applicativo della legge del 1909: la nuova attività legislativa e la raccolta
di leggi e disposizioni anteriori si legano in quegli anni in modo assai
stretto.
Parpagliolo definisce il paesaggio secondo i principi della legge francese del 1906:
‘una
parte di territorio i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco
od estetico a causa della disposizione delle linee, delle forme e dei colori’. Anche altri concetti
complementari (‘sito’, ‘sito pittoresco’, ‘monumenti naturali’, ‘bellezze
naturali’) sono modellati sulla Francia, ma Parpagliolo propone di estendere,
specificare e precisare gli ambiti di tutela: non solo i paesaggi e le bellezze
naturali, ma anche ‘l’aspetto delle città storiche, gli spazi liberi che
circondano le grandi città’, e inoltre elementi dell’ambiente e della
tradizione popolare; anche per lui, insomma, l’ambito del disegno di legge
Rosadi andrebbe ulteriormente esteso.
[PROSEGUE CON IL CAPITOLO COMPLETO]
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