approfondimenti circa
Il saggio
Vālmikī avanzò con ponderazione, guardandosi attorno, verso la grande foresta.
Nelle
vicinanze, vide aggirarsi una deliziosa coppia di gru, che cantavano
aggraziate. Mentre le osservava, un cacciatore tribale, nemico degli abitanti
del bosco, uccise il maschio. La femmina, vedendolo stramazzare e contorcersi a
terra, con il corpo coperto di sangue, si straziava in lamenti.
Il
saggio aveva un cuore equo, e l’uccisione compiuta dal cacciatore lo mosse a
pietà.
Pieno di
compassione, pensò che quell’atto fosse profondamente ingiusto.
‘Hai ucciso uno dei due uccelli nel momento in
cui era in preda alla passione. Per questo, cacciatore del malo augurio, il tuo
ricordo sarà dannato in eterno’.
Poi
rifletté a lungo e si chiese tra sé:
‘Che frase ho mai detto, quando ero così scosso
per l’uccello?’.
Dopo avere rigirato ancora nel cuore le proprie parole, il saggio perfetto giunse a comprendere. Da dotto qual era, disse al discepolo che lo accompagnava:
‘Il mio dire è nato mentre ero sopraffatto dal dolore
[śoka]. Ha ritmo e metro ed è disposto in ordine armonioso. Questo e
nient’altro sarà il verso in poesia [śloka]’.
Mentre pronunciava
queste parole supreme, il suo allievo le mandava a memoria, così che egli ne fu
lieto.
Compì il proprio bagno rituale e prese la via del ritorno, continuando a pensare a quanto era successo. Bharadvāja, l’umile e dotto discepolo, gli camminava dietro, dopo aver riempito il bacile dell’acqua lustrale.
Solitudine,
concentrazione, controllo di sé.
Protagonista
di questo incontro-rivelazione è Vālmikī, l’autore del Rāmāyaṇa, grande capolavoro dell’epica indiana. Quando prende
l’avvio il racconto, Vālmikī è già un celebre asceta, ma non ha ancora scoperto
la propria più profonda vocazione.
È una scena
di pace e di raccoglimento, allietata, o forse dovremmo dire interrotta, dall’apparire
di un paio di gru in amore.
Un’interruzione
gradevole, certo, ma anche l’irrompere della passione e della gioia di vivere
nel mondo mentale e trattenuto del perfetto brahmano.
Il canto
degli uccelli risuona per un attimo.
Prima che possa capirne la causa, Vālmikī vede il maschio stramazzare, contorcersi nello spasmo della morte. Accanto a lui, la compagna si strugge e si lamenta. Non c’è rimedio alla morte, e non c’è scusa per chi l’ha arrecata. Vālmikī ha la giustizia nel cuore.
Porta in sé
il dharma, come s’esprime qui il sanscrito (dharmātmānaḥ).
La legge
cosmica, fatta di compassione e di emozione, è incisa nel suo animo, profonda, incancellabile.
È una norma di equilibrio, che a volte può però sfociare nell’ira, nel disequilibrio.
Non c’è
equanimità senza moto, e non c’è movimento senza squilibrio.
Vālmikī s’infiamma, maledice.
Il
cacciatore colpevole sia dannato, per sempre, il suo nome sia ricordato in
abominio!
Vālmikī la sente,
questa condanna, la vuole, la dice. E come emette il suono della maledizione,
le sue parole diventano realtà, si cristallizzano in un fato immutabile.
È un’unica,
breve frase, una delle più celebri della poesia indiana. Anzi, è il modello di ogni
successivo comporre in versi. Armoniosa, ritmata, è un’invettiva-manifesto.
Ed è anche
una profonda, inaspettata preveggenza.
Sotto il peso dell’emozione, grazie a un incontro casuale e fatale, Vālmikī intuisce quello che lo aspetta.
Il suo futuro
è la poesia.
La sua non
sarà una lirica di versi politi, abili, misurati. Il suo canto avrà la verità
della grande arte, una verità fatta di passione e di condivisione. Il suo poema
non esiste ancora, ma il primo verso, che ha pronunciato mentre era in preda
del rammarico e dell’indignazione, vale come cifra stilistica di tutto il
componimento.
La premonizione di Vālmikī costruisce e anticipa una millenaria storia letteraria indiana.
È nata nel
folto della Foresta, presso un fiume cristallino.
È nata
senza che nessuno la volesse o l’avesse preparata.
È nata dal
sangue, dalla morte, dal lutto.
Lo specchio
a cui si affaccia il divinante?
Le tracce
del futuro?
Sono i
rantoli della vittima.
E
l’officiante del sacrificio?
È un malaugurato cacciatore, distruttore della legge, portatore dell’adharma, dell’ingiustizia cosmica – adharmo ayam iti, ‘[Vālmikī] pensò che quell’atto fosse profondamente ingiusto’.
Vālmikī si stupisce
e si confonde. Come ha potuto perdere il controllo di sé e prorompere in una
simile invettiva, lui che è abituato a misurare ogni desiderio, ogni passione?
Non gli ci
vuole molto per comprendere.
Il Vālmikī
asceta sta per trasformarsi nell’autore del Rāmayāṇa. Il tempo della ponderazione è finito. Inizia il tempo
della poesia, in cui può essere vero solo ciò che è stato vissuto e patito.
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