sabato 27 maggio 2023

SERVITORI DI DIO (Seconda parte)

 

 


                  

 

       


approfondimenti circa 


talune Riflessioni  &  [8/1]





               

Il saggio Vālmikī avanzò con ponderazione, guardandosi attorno, verso la grande foresta.

 

Nelle vicinanze, vide aggirarsi una deliziosa coppia di gru, che cantavano aggraziate. Mentre le osservava, un cacciatore tribale, nemico degli abitanti del bosco, uccise il maschio. La femmina, vedendolo stramazzare e contorcersi a terra, con il corpo coperto di sangue, si straziava in lamenti.

 

Il saggio aveva un cuore equo, e l’uccisione compiuta dal cacciatore lo mosse a pietà.

 

Pieno di compassione, pensò che quell’atto fosse profondamente ingiusto.




 Mentre la femmina non cessava di gemere, egli pronunciò queste parole:

 

‘Hai ucciso uno dei due uccelli nel momento in cui era in preda alla passione. Per questo, cacciatore del malo augurio, il tuo ricordo sarà dannato in eterno’.

 

Poi rifletté a lungo e si chiese tra sé:

 

‘Che frase ho mai detto, quando ero così scosso per l’uccello?’.




Dopo avere rigirato ancora nel cuore le proprie parole, il saggio perfetto giunse a comprendere. Da dotto qual era, disse al discepolo che lo accompagnava:

 

‘Il mio dire è nato mentre ero sopraffatto dal dolore [śoka]. Ha ritmo e metro ed è disposto in ordine armonioso. Questo e nient’altro sarà il verso in poesia [śloka]’.

 

Mentre pronunciava queste parole supreme, il suo allievo le mandava a memoria, così che egli ne fu lieto.




Compì il proprio bagno rituale e prese la via del ritorno, continuando a pensare a quanto era successo. Bharadvāja, l’umile e dotto discepolo, gli camminava dietro, dopo aver riempito il bacile dell’acqua lustrale.

 

Solitudine, concentrazione, controllo di sé.

 

Protagonista di questo incontro-rivelazione è Vālmikī, l’autore del Rāmāyaa, grande capolavoro dell’epica indiana. Quando prende l’avvio il racconto, Vālmikī è già un celebre asceta, ma non ha ancora scoperto la propria più profonda vocazione.




 Lo seguiamo mentre scende al fiume Tamsa, un affluente del Gange, dalle acque limpide, incontaminate.

 

È una scena di pace e di raccoglimento, allietata, o forse dovremmo dire interrotta, dall’apparire di un paio di gru in amore.

 

Un’interruzione gradevole, certo, ma anche l’irrompere della passione e della gioia di vivere nel mondo mentale e trattenuto del perfetto brahmano.

 

Il canto degli uccelli risuona per un attimo.




Prima che possa capirne la causa, Vālmikī vede il maschio stramazzare, contorcersi nello spasmo della morte. Accanto a lui, la compagna si strugge e si lamenta. Non c’è rimedio alla morte, e non c’è scusa per chi l’ha arrecata. Vālmikī ha la giustizia nel cuore.

 

Porta in sé il dharma, come s’esprime qui il sanscrito (dharmātmāna).

 

La legge cosmica, fatta di compassione e di emozione, è incisa nel suo animo, profonda, incancellabile. È una norma di equilibrio, che a volte può però sfociare nell’ira, nel disequilibrio.

 

Non c’è equanimità senza moto, e non c’è movimento senza squilibrio.




Vālmikī s’infiamma, maledice.

 

Il cacciatore colpevole sia dannato, per sempre, il suo nome sia ricordato in abominio!

 

Vālmikī la sente, questa condanna, la vuole, la dice. E come emette il suono della maledizione, le sue parole diventano realtà, si cristallizzano in un fato immutabile.

 

È un’unica, breve frase, una delle più celebri della poesia indiana. Anzi, è il modello di ogni successivo comporre in versi. Armoniosa, ritmata, è un’invettiva-manifesto.

 

Ed è anche una profonda, inaspettata preveggenza.




Sotto il peso dell’emozione, grazie a un incontro casuale e fatale, Vālmikī intuisce quello che lo aspetta.

 

Il suo futuro è la poesia.

 

La sua non sarà una lirica di versi politi, abili, misurati. Il suo canto avrà la verità della grande arte, una verità fatta di passione e di condivisione. Il suo poema non esiste ancora, ma il primo verso, che ha pronunciato mentre era in preda del rammarico e dell’indignazione, vale come cifra stilistica di tutto il componimento.




La premonizione di Vālmikī costruisce e anticipa una millenaria storia letteraria indiana.

 

È nata nel folto della Foresta, presso un fiume cristallino.

 

È nata senza che nessuno la volesse o l’avesse preparata.

 

È nata dal sangue, dalla morte, dal lutto.

 

Lo specchio a cui si affaccia il divinante?




 È il suo animo turbato, in subbuglio. La vittima sacrificale, che prepara il vaticinio, è un povero maschio di gru, il cui amore si trasforma in supplizio.

 

Le tracce del futuro?

 

Sono i rantoli della vittima.

 

E l’officiante del sacrificio?




È un malaugurato cacciatore, distruttore della legge, portatore dell’adharma, dell’ingiustizia cosmica – adharmo ayam iti, ‘[Vālmikī] pensò che quell’atto fosse profondamente ingiusto’.

 

Vālmikī si stupisce e si confonde. Come ha potuto perdere il controllo di sé e prorompere in una simile invettiva, lui che è abituato a misurare ogni desiderio, ogni passione?

 

Non gli ci vuole molto per comprendere.

 

Il Vālmikī asceta sta per trasformarsi nell’autore del Rāmayāa. Il tempo della ponderazione è finito. Inizia il tempo della poesia, in cui può essere vero solo ciò che è stato vissuto e patito.

 



 

 


 

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