venerdì 19 gennaio 2024

CHI DELLA FOLLA, INVECE, NE FECE ELOGIO

 







Approfondimenti 


circa un rigido clima






La follia è allegria e spensieratezza, indispensabili alla felicità. L’uomo di mera ragione senza passione è un’immagine di pietra, ottusa e senza alcun sentimento umano, uno spettro o un mostro, da cui tutti fuggono, sordo a tutte le emozioni naturali, suscettibile né all'amore né alla compassione. Nulla gli sfugge, in nulla sbaglia; vede tutto, pesa tutto con precisione, non perdona nulla, è soddisfatto solo di se stesso; lui solo è sano; lui solo è re, lui solo è libero. È l’orrenda figura del dottrinario a cui pensa Erasmo. Quale Stato, esclama, desidererebbe come magistrato un uomo così assolutamente saggio? 


Mentre cavalcava sui passi montani, Lo spirito inquieto di Erasmo, ormai libero da alcuni giorni dai compiti prefissati, si occupava di tutto ciò che aveva studiato e letto negli ultimi anni, e di tutto ciò che aveva visto. Quale ambizione, quale autoinganno, quale orgoglio e presunzione riempivano il mondo!

 

Pensò a Tommaso Moro, che ora avrebbe rivisto, il più spiritoso e saggio di tutti i suoi amici, con quel curioso nome Moros , la parola greca per pazzo, che così male si addiceva alla sua personalità. Anticipando gli scherzi allegri che la conversazione di More prometteva, crebbe nella sua mente quel capolavoro di umorismo e saggia ironia, Moriae Encomium, l’Elogio della Follia.




Il mondo come scena della follia universale, la follia come elemento indispensabile che rende possibile la vita e la società e tutto questo messo in bocca alla stessa Stultitia – Follia – (vero antitipo di Minerva), che in un panegirico della propria potenza e utilità, loda se stessa. Quanto alla forma è una Decclamatio, come l’aveva tradotta dal greco di Libanio. Quanto allo spirito, una ripresa di Luciano, il cui Gallus, da lui tradotto tre anni prima, potrebbe aver suggerito il tema. Deve essere stato nei momenti di incomparabile lucidità di quell’intelletto brillante. Tutti i particolari della lettura classica che l’anno prima aveva elaborato nella nuova edizione degli Adagia erano ancora in suo possesso e a disposizione immediata in quella memoria ritentiva e capiente. Riflettendo a suo agio su tutta quella saggezza degli antichi, secernò i succhi necessari per la sua ‘protesta’.

 

Arrivò a Londra, prese dimora nella casa di More a Bucklersbury, e lì, torturato da dolori nefritici, scrisse in pochi giorni, senza avere con sé i suoi libri, l’opera d’arte perfetta che doveva essere pronta nel suo mente.

 

Stultitia nacque veramente alla maniera della sua seria sorella Pallade.




 Per quanto riguarda la forma e le immagini, Moria è impeccabile, il prodotto di momenti ispirati di impulso creativo. La figura dell’oratore di fronte al suo pubblico è sostenuta fino all’ultimo in modo magistrale. Vediamo i volti degli uditori illuminarsi di gioia quando la Follia appare sul pulpito; sentiamo gli applausi che interrompono le sue parole. C’è una ricchezza di fantasia, unita a tanta sobrietà di linee e colori, tale riservatezza, che l’insieme presenta un perfetto esempio di quell’armonia che è l’essenza dell’espressione rinascimentale. Non c’è esuberanza, nonostante la molteplicità della materia e del pensiero, ma una moderazione, una morbidezza, un’ariosità e una chiarezza che sono tanto rallegranti quanto rilassanti. Per rendersi conto perfettamente della perfezione artistica del libro di Erasmo dovremmo confrontarlo con Rabelais.




‘Senza di me’, dice Folly, ‘il mondo non può esistere neanche per un momento. Perché tutto ciò che avviene tra i mortali non è pieno di follia; non viene eseguita da stolti e per gli stolti? Nessuna società, nessuna convivenza può essere piacevole e duratura senza follia; tanto che un popolo non sopporterebbe nemmeno per un istante il suo principe, né il padrone il suo servitore, né la serva la sua amante, né il precettore il suo allievo, né l’amico il suo amico, né la moglie il suo marito, se lo facessero. non di tanto in tanto sbagliate insieme, ora lusingatevi a vicenda; ora sensatamente connivente, ora imbrattandosi di miele di follia’.

 

In quella frase è contenuto il riassunto del Laus. La follia qui è saggezza mondana, rassegnazione e giudizio indulgente.

 

Chi si toglie le maschere nella commedia della vita viene espulso. Cos’è tutta la vita dei mortali se non una specie di commedia in cui ogni attore appare sulla scena con la sua maschera specifica e recita la sua parte finché il direttore di scena non lo richiama?




Agisce male chi non si adatta alle condizioni esistenti e pretende che il gioco non sia più un gioco. È proprio di chi è veramente sensato mescolarsi con tutte le persone, o essendo facilmente connivente della loro follia, o errando affabilmente come loro.

 

E il motore necessario di ogni azione umana è la Filautia, la sorella stessa della Follia: l’amor proprio. Chi non piace a se stesso fa poco. Togliete quel condimento di vita e la parola dell’oratore si raffredda, il poeta viene deriso, l’artista perisce con la sua arte.

 

La follia sotto le spoglie dell’orgoglio, della vanità, della vanagloria, è la sorgente nascosta di tutto ciò che è considerato alto e grande in questo mondo. Lo Stato con i suoi posti d’onore, il patriottismo e l’orgoglio nazionale; la maestosità delle cerimonie, l’illusione della casta e della nobiltà: cos’è se non follia?

 

La guerra, la cosa più sciocca di tutte, è l’origine di ogni eroismo. Cosa spinse i Decio, e quale Curzio, a sacrificarsi?

 



Vanagloria.

 

È questa follia che produce gli Stati; attraverso di lei esistono gli imperi, la religione, i tribunali.

 

Questo è più audace e agghiacciante di Machiavelli, più distaccato di Montaigne. Ma Erasmo non se lo farà accreditare: è la Follia che parla. Egli ci fa di proposito percorrere il giro del circulus vitiosus, come nell’antico detto: ‘Un cretese disse: tutti i cretesi sono bugiardi’.

 

La saggezza sta alla follia come la ragione sta alla passione. E al mondo c’è molta più passione che ragione. Ciò che fa andare avanti il ​​mondo, la fonte della vita, è follia. Perché cos’altro è l’amore?

 

Perché le persone si sposano, se non per una follia, che non vede obiezioni?




Ogni divertimento e divertimento è solo un condimento di follia. Quando un uomo saggio desidera diventare padre, deve prima fare lo stolto. Che cosa infatti è più insensato del gioco della procreazione?

 

Inavvertitamente l’oratore ha qui incorporato con follia tutto ciò che è vitalità e coraggio della vita. La follia è energia spontanea di cui nessuno può fare a meno. Chi è perfettamente sensato e serio non può vivere. Più persone scappano da me, Stultitia, meno vivono. Perché baciamo e coccoliamo i bambini piccoli, se non perché sono ancora così deliziosamente sciocchi. E cos’altro rende la giovinezza così elegante?

 

Ora guardiamo a ciò che è veramente serio e sensato.

 

Sono impacciati in tutto, durante i pasti, al ballo, nel gioco, nei rapporti sociali. Se devono acquistare o stipulare contratti, le cose sicuramente andranno storte. Quintiliano dice che la paura del palcoscenico rivela l’oratore intelligente, che conosce i suoi difetti.

 

Giusto!

 

Ma Quintiliano non confessa forse apertamente che la saggezza è un ostacolo alla buona esecuzione?




E non ha Stultitia il diritto di pretendere la prudenza, se i saggi, per vergogna, per timidezza, non intraprendono nulla in circostanze in cui gli stolti si mettono coraggiosamente all’opera?

 

Qui Erasmus va alla radice della questione in senso psicologico. In effetti, la consapevolezza di non riuscire a raggiungere i risultati è l’azione che intasa i freni, è la grande inerzia che ritarda il progresso del mondo. Si riconosceva come uno che è goffo quando non si china sui libri, ma si confronta con gli uomini e gli affari?




La follia è allegria e spensieratezza, indispensabili alla felicità. L’uomo di mera ragione senza passione è un’immagine di pietra, ottusa e senza alcun sentimento umano, uno spettro o un mostro, da cui tutti fuggono, sordo a tutte le emozioni naturali, suscettibile né all'amore né alla compassione. Nulla gli sfugge, in nulla sbaglia; vede tutto, pesa tutto con precisione, non perdona nulla, è soddisfatto solo di se stesso; lui solo è sano; lui solo è re, lui solo è libero. È l’orrenda figura del dottrinario a cui pensa Erasmo. Quale Stato, esclama, desidererebbe come magistrato un uomo così assolutamente saggio?

 

Colui che si dedica ad assaporare tutta l’amarezza della vita con saggia intuizione si priverebbe immediatamente della vita. Solo la follia è un rimedio: errare, sbagliare, essere ignorante è essere umani. Quanto è meglio nel matrimonio essere ciechi davanti ai difetti della moglie, piuttosto che sopprimere se stessi per gelosia e riempire il mondo di tragedie! L’adulazione è virtù. Non c’è devozione cordiale senza un po’ di adulazione. È l’anima dell’eloquenza, della medicina e della poesia; è il miele e la dolcezza di tutti i costumi umani.

 

Ancora una volta una serie di preziose qualità sociali vengono astutamente incorporate nella follia: benevolenza, gentilezza, inclinazione ad approvare e ad ammirare.




Ma soprattutto approvare se stessi. Non c’è piacere agli altri senza cominciare ad adulare noi stessi e ad approvare noi stessi. Che cosa sarebbe il mondo se ciascuno non fosse orgoglioso della sua posizione, della sua vocazione, così che nessuno si scambiasse di posto con un altro in fatto di bell’aspetto, di fantasia, di buona famiglia, di proprietà fondiaria?

 

L’imbroglio è la cosa giusta. Perché qualcuno dovrebbe desiderare la vera erudizione? Quanto più un uomo è incompetente, tanto più piacevole è la sua vita e tanto più è ammirato. Guarda i professori, i poeti, gli oratori. La mente dell’uomo è fatta in modo tale che è più impressionato dalle bugie che dalla verità. Andate in chiesa: se il prete tratta argomenti seri tutta la congregazione sonnecchia, sbadiglia, si annoia. Ma quando comincia a raccontare qualche storia assurda, loro si svegliano, si siedono e si attaccano alle sue labbra.

 

Essere ingannati, dicono i filosofi, è una disgrazia, ma non essere ingannati è una disgrazia superlativa. Se è umano errare, perché un uomo dovrebbe dirsi infelice perché sbaglia, dal momento che così è nato e creato, ed è la sorte di tutti?

 

Proviamo compassione per un uomo perché non sa volare o non cammina su quattro zampe?




Potremmo anche dire che il cavallo è infelice perché non impara la grammatica né mangia dolci. Nessuna creatura è infelice, se vive secondo la sua natura. Le scienze furono inventate per la nostra massima distruzione; lungi dal contribuire alla nostra felicità, sono addirittura di ostacolo, anche se si suppone che siano stati inventati per il suo bene. Per mezzo di demoni malvagi si sono insinuati nella vita umana insieme ad altri parassiti.

 

Perché gli ingenui dell’Età dell’Oro non vivevano felici, privi di qualsiasi scienza, guidati solo dalla natura e dall’istinto?

 

A cosa servivano la grammatica, quando tutti parlavano la stessa lingua?

 

Perché esistere la dialettica, quando non c’erano litigi e differenze di opinione?

 

Perché la giurisprudenza, quando non esisteva una cattiva morale da cui scaturissero buone leggi?




E se fossimo troppo religiosi per indagare con empia curiosità i segreti della natura, le dimensioni, i movimenti, l’influenza degli astri, la causa nascosta delle cose.

 

È la vecchia idea, germinata nell’antichità, qui sfiorata da Erasmo, poi proclamata con amarezza da Rousseau: la civiltà è una piaga.

 

La saggezza è sfortuna, ma la presunzione è felicità. I grammatici, che detengono lo scettro della saggezza, cioè i maestri, sarebbero i più miserabili tra tutti se io, Follia, non mitigassi i disagi della loro miserabile vocazione con una sorta di dolce frenesia. Ma ciò che vale per i maestri di scuola, vale anche per i poeti, gli oratori, gli autori. Anche per loro tutta la felicità consiste semplicemente nella vanità e nell’illusione. I giuristi non se la passano meglio e dopo di loro vengono i filosofi. Segue un numeroso corteo del clero: teologi, monaci, vescovi, cardinali, papi, interrotto solo da principi e cortigiani.




Nei capitoli che passano in rassegna questi uffici e queste chiamate, la satira ha spostato un po’ il suo terreno. In tutta l’opera si intrecciano due temi: quello della follia salutare, che è la vera saggezza, e quello della saggezza illusoria, che è pura follia. Poiché entrambi vengono messi nella bocca della Follia, dovremmo invertirli entrambi per ottenere la verità, se la Follia... non fosse saggezza. Ora è chiaro che il primo è il tema principale. L’Erasmus parte da lì; e ci ritorna. Solo a metà, mentre passa in rassegna le conquiste e le dignità umane nella loro universale follia, predomina il secondo tema e il libro diventa una banale satira sulla follia umana, di cui ce ne sono molte anche se poche sono così delicate. Ma nelle altre parti è qualcosa di molto più profondo.

 

Di tanto in tanto la satira esce un po’ fuori linea, quando Stultitia censura direttamente ciò che Erasmo vuole censurare; per esempio, le indulgenze, la sciocca credenza nei prodigi, il culto egoistico dei santi; o giocatori d’azzardo che lei, la Follia, dovrebbe lodare; oppure lo spirito di sistematizzazione e livellamento e la gelosia dei monaci.




Per i lettori contemporanei l’importanza del Laus Stultitiae risiedeva, in larga misura, nella satira diretta. Il suo valore duraturo è in quei passaggi in cui ammettiamo veramente che la follia sia saggezza e il contrario. Erasmo conosce l’indifferenza del fondamento di tutte le cose: ogni pensiero coerente fuori dai dogmi della fede porta all’assurdo. Basta guardare alle peculiarità teologiche della scolastica effeminata. Gli apostoli non li avrebbero capiti: agli occhi dei teologi degli ultimi giorni sarebbero stati degli sciocchi. La stessa Sacra Scrittura si schiera dalla parte della follia. ‘La stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini’, dice san Paolo. ‘Ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo’. ‘È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione’. Cristo amò gli ingenui e gli ignoranti: i bambini, le donne, i poveri pescatori, anzi perfino gli animali più lontani dall’astuzia volpina: l’asino che volle cavalcare, la colomba, l’agnello, la pecora.

 

Qui c’è molto di più dietro la battuta apparentemente leggera: ‘La religione cristiana sembra avere in generale qualche affinità con un certo tipo di follia’. Non si pensava che gli apostoli fossero pieni di vino nuovo? E il giudice non ha detto: ‘Paolo, sei fuori di te’?

 

Quando siamo fuori di noi?

 

Quando lo spirito spezza le sue catene e cerca di fuggire dalla sua prigione e aspira alla libertà. Questa è follia, ma è anche ultramondana e la più alta saggezza. La vera felicità sta nell’altruismo, nel furore degli amanti, che Platone chiama i più felici di tutti. Più l’amore è assoluto, più grande ed estatica è la frenesia. La stessa beatitudine celeste è la più grande follia; le persone veramente pie ne godono l’ombra sulla terra già nelle loro meditazioni.




Qui Stultitia interrompe il suo discorso, scusandosi con poche parole nel caso fosse stata troppo petulante o loquace, e lascia il pulpito. ‘Quindi addio, applaudite, vivete felici e bevete, illustri iniziati di Moria’.

 

Anche in questi ultimi capitoli è stata un’impresa artistica ineguagliabile non perdere il leggero tocco comico, né scadere in palese profanazione. Era possibile soltanto ballando sul filo teso dei sofismi. Al Moria l’Erasmus è tutto il tempo in bilico sull’orlo di verità profonde. Ma che vantaggio era, ancora concesso a quei tempi, poter trattare di tutto questo in una vena di allegria. Perché questo dovrebbe essere impresso nelle nostre menti: che l’Encomio di Moriae è un vero scherzo allegro. La risata è più delicata, ma non per questo meno cordiale di quella di Rabelais. ‘Valete, plaudite, vivite’. ‘Tutta la gente comune abbonda a tal punto, e dovunque, di così tante forme di follia che mille Democrito non basterebbero per riderne tutte (e ci vorrebbe un altro Democrito per ridere di loro)’.




Come si può prendere il Moria troppo sul serio, quando anche l’Utopia di More, che ne è un vero complemento e ci fa un’impressione così grave, viene trattata dal suo autore e da Erasmo come un semplice scherzo? C’è un luogo dove il Laus sembra toccare sia More che Rabelais; il luogo in cui Stultitia parla di suo padre, Pluto, il dio della ricchezza, al cui comando tutte le cose vengono capovolte, secondo la cui volontà tutti gli affari umani sono regolati: guerra e pace, governo e consiglio, giustizia e trattati. L’ha generata dalla ninfa Giovinezza, non un Pluto senile e cieco, ma un dio fresco, caldo di giovinezza e di nettare, come un altro Gargantua.

 

La figura della Follia, di dimensioni gigantesche, appare imponente nel periodo rinascimentale. Indossa un berretto e dei campanelli da sciocco. La gente rideva forte e con disinvoltura per tutto ciò che era sciocco, senza discriminare tra le specie di follia. È notevole che anche nel Laus, per quanto delicato, l’autore non distingua tra gli imprudenti e gli sciocchi, tra gli sciocchi e i lunatici. Holbein, illustrando Erasmo, conosce solo una rappresentazione di uno sciocco: con un bastone e le orecchie d’asino.

 

Erasmo parla senza transizione netta, ora di stolti, ora di veri pazzi.




Sono più felici di tutti, fa dire a Stultitia: non hanno paura degli spettri e delle apparizioni; non sono torturati dalla paura di calamità imminenti; ovunque portano allegria, scherzi, allegria e risate. Evidentemente si tratta di innocui imbecilli, che, infatti, venivano spesso usati come giullari.

 

Negli anni successivi parlò sempre con disprezzo del suo Moria. Lo considerava così poco importante, dice, da non essere degno di pubblicazione, eppure nessuna sua opera era stata accolta con tanti applausi. Era una sciocchezza e non era affatto in linea con il suo carattere. Altro lo aveva spinto a scriverlo, come se un cammello fosse stato fatto ballare. Ma queste espressioni denigratorie non erano prive di uno scopo secondario. Il Moria non gli aveva portato solo successo e piacere. L’età estremamente suscettibile in cui viveva aveva preso molto male la satira, dove sembrava gettare uno sguardo su uffici e ordini, sebbene nella prefazione avesse cercato di salvaguardarsi dal rimprovero di irriverenza.




Il suo gioco arioso con i testi della Sacra Scrittura era stato per molti troppo ardito. Il suo amico Martin van Dorp lo rimproverò per essersi fatto beffe della vita eterna. Erasmo fece quello che poteva per convincere i malvagi pensatori che lo scopo del Moria non era altro che esortare le persone a essere virtuose. Affermando questo ha fatto un’ingiustizia alla sua opera: era molto di più. Ma nel 1515 non era più quello che era nel 1509. Più volte era stato costretto a difendere la sua opera più spiritosa. Se avesse saputo che avrebbe offeso, forse l’avrebbe tenuto nascosta, scrive nel 1517 a un conoscente di Lovanio. Anche verso la fine della sua vita respinse con una lunga rimostranza le insinuazioni di Alberto Pio da Carpi.

 

Erasmo non fece ulteriori iniziative nel genere dell’Elogio della follia . Si potrebbe considerare il trattato Lingua, da lui pubblicato nel 1525, come un tentativo di fare da complemento al Moria. Il libro si intitola Dell’uso e abuso della lingua. Nelle prime pagine c’è qualcosa che ricorda lo stile del Laus, ma manca di tutto il fascino sia della forma che del pensiero.

 

Bisogna compatire Erasmo perché, di tutte le sue pubblicazioni, raccolte in dieci volumi in folio, solo l’Elogio della follia è rimasto un libro davvero popolare?




Lo è, a parte i Colloqui o Dialoghi, forse l’unica sua opera ancora letta fine a se stessa. Il resto viene ormai studiato solo dal punto di vista storico, per conoscere la sua persona e la sua epoca. Mi sembra che in questo caso sia stata fatta perfetta giustizia. L’Elogio della Follia è la sua opera migliore. Scrisse altri libri, più eruditi, alcuni più pii, alcuni forse di uguale o maggiore influenza sul suo tempo. Ma ognuno ha avuto il suo momento. Solo Moriae Encomium doveva essere immortale. Perché solo quando l’umorismo illuminava quella mente, esso diventava veramente profondo. Nell’Elogio della Follia Erasmo ha dato qualcosa che nessun altro avrebbe potuto dare al mondo.

 

E per concludere, da medesimo ugual pulpito, ci auguriamo che questa piccola èra glaciale, ove hor hora, vi apostrofo scrivo e ritraggo, circa questo freddo gelo civilizzato con tanto troppo ghiaccio ove scivolare senza mai inciampare; ed ove, seppur qualcuno inciampa incolperà l’altro dell’accidentata disgrazia; possa volgere - il sofferto ulcerato profilo - ad una felice e più serena primavera; ovvero quando, ogni follia imbiancata con prodigiosa e più nutrita dispendio d’energia, innevata fuori tempo e a piene mani dal drago, combatterà con un diverso seppur medesimo Spirito di conquista: tutte le guerre fra casseforti e umili salvadanai;  ed allora, signori miei, anche le stagioni saranno in preda alla corte d’una diversa cancrenosa verminosa invisibile follia, è che Nessuno neghi l’evidenza d’un tempo pur scritto nel vero senso del progresso!…

 

E che Iddio li mal…

 

Benedica! 

 

(J. Huizinga)

 







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